La transfobia che prevarica sull’amore
Si chiamava Alessia Cirillo la donna transgender deceduta alcuni giorni fa, umiliata per l’ennesima volta dai suoi familiari perché aveva scelto di convertire in femminile il suo nome da uomo, per sentirlo più suo. I parenti, che non avevano mai accettato il suo coming out, non hanno rispettato il suo modo di essere neanche da morta, riconoscendola sul necrologio come “Alessio”.
Erano anni che a causa della sua scelta aveva dovuto interrompere i rapporti con i suoi cari e non aveva più contatti; anni complicati in cui ha dovuto lottare con tutta se stessa non solo contro il pregiudizio e la solitudine, ma anche contro un grande male: la leucemia.
Infatti la sua lotta andava avanti da ben 3 anni, senza che nessuno della sua famiglia si fosse presentato anche solo per stringerle una volta la mano o darle conforto, come se l’amore di un padre o di una madre dipendesse dalle scelte sessuali di un figlio… A loro non è bastato averla cacciata di casa, averla lasciata da sola nei momenti in cui sarebbe stato loro dovere esserci, no. Hanno voluto schernirla e denigrarla fino all’ultimo, anche ora che non può più rispondere. A difendere la memoria della donna sono però intervenute una sua amica e Daniela Lourdes Falanga, presidente dell’Arcigay di Napoli.
Fa quasi ribrezzo riconoscere che ancora oggi la transfobia, la paura del diverso, è più forte dell’amore che lega un genitore al proprio figlio. Alessia non c’è più e la sua famiglia non ha avuto il desiderio di darle un’ultima carezza, di lasciarla andare facendole sapere di essere amata, ma ha avuto la vigliaccheria di ferirla ancora una volta. E viene anche da chiedersi: come è possibile recare tanto male a una persona che abbiamo generato, amato, coccolato, educato? Sangue del proprio sangue, carne della propria carne. Com’è possibile? Eppure siamo nel 2020! Ma la verità è che l’anno in cui viviamo non può cambiare niente, perché purtroppo l’odio e l’ignoranza delle persone ci saranno sempre e comunque.
Alessia non ha ricevuto il rispetto che meritava in vita, ma ora che non è più fra noi vorrei essere io, come tante altre persone che hanno condiviso la sua storia, a renderle giustizia di fronte all’ultima offesa subita. Ci sono e ci saranno ancora tanti altri ragazzi e ragazze che saranno feriti da coloro che per primi dovrebbero sostenerli e amarli per quelli che sono. Se una persona non si sente a proprio agio con il suo corpo, con il suo essere, è giusto che venga rispettata ogni sua decisione, senza continuare, come nel caso di Ale, a darle del “lui”, o a chiamarla con il nome maschile. Può sembrare semplicemente grammatica; ma non lo è.
Si chiama rispetto. Si chiama amore.
Chiara Cinquegrana 2AC
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