In questo momento storico è davvero difficile accendere la televisione o navigare in rete e non trovare in primo piano notizie sul covid. Invece il 25 novembre intorno alle 17,00 è iniziato a rimbalzare su tutti i media un annuncio che ha lasciato il mondo intero senza parole: la morte di Diego Armando Maradona. Il Pibe De Oro, dopo essere stato ricoverato d’urgenza per un problema al cervello agli inizi di novembre, è deceduto nella sua villa di Tigre, in Argentina, quasi un mese dopo il suo sessantesimo compleanno.

Maradona è stato un personaggio iconico, idolo di intere generazioni; pertanto gli appassionati di sport di tutto il mondo fin dalle prime ore stanno rendendo omaggio al più grande calciatore di tutti i tempi. Tuttavia ci sono dei luoghi in cui questo vuoto si avverte ancora di più e sono i luoghi simbolo della vita di Diego Armando: Buenos Aires, la sua città natale, e Napoli, la sua città di adozione.

Se Maradona è diventato il mito di miliardi di persone, lo deve soprattutto alle sue origini. La sua storia è la rappresentazione del vero riscatto sociale, di come si possa partire dal nulla e arrivare ad essere il numero uno. Maradona, infatti, proveniva dalla periferia di Buenos Aires e fin da ragazzino, quando era un talentuoso giocatore dell’Argentinos Juniors, diceva di avere due sogni: il primo era giocare la Coppa del mondo, il secondo vincerla. Maradona vinse davvero un mondiale, nel 1986. Quell’anno l’Argentina aveva una rosa di calciatori considerata una delle più scarse di sempre. Maradona, invece, si caricò il peso di quella squadra  e la trascinò alla vittoria con due goal che entrarono nella storia, entrambi segnati nella semifinale contro l’Inghilterra: uno, non a caso, viene chiamato “il goal del secolo” ed è una prodezza che risulta impossibile da descrivere a parole; l’altro è un goal realizzato con la mano, definita da quel momento “la mano de Dios”.

Con lo stesso spirito di rivalsa Maradona arrivò a Napoli. Per lui quello non era un periodo particolarmente felice ma, quando fece il suo ingresso allo stadio San Paolo il 5 luglio del 1984, si avvertì che qualcosa stava cambiando. Si presentò ai tifosi e ai giornalisti con queste parole: “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono com’ero io quando vivevo a Buenos Aires”. Domenica dopo domenica, goal dopo goal, finta dopo finta El pibe de oro riuscì nel suo intento. In sei anni di permanenza ha regalato alla città due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa e una Supercoppa, un palmares mai visto prima nella storia della società e che ancora non è stato eguagliato. Il legame tra i napoletani e Maradona è diventato così indissolubile perché rappresenta la rivincita di un popolo che era stato fin troppo snobbato e umiliato dai ricchi del Nord. Per una volta noi napoletani abbiamo smesso di sentirci inferiori, perché noi “abbiamo visto Maradona”. Per questo motivo non c’è da stupirsi se in tutti i quartieri della città imperversano i flashmob e se davanti allo stadio, che a breve verrà ufficialmente rinominato “Stadio Diego Armando Maradona”, si è riversata una folla di persone per ricordare il campione argentino. La grandezza di Diego Armando sta nel fatto che in questo momento tutti si sentono un po’ orfani, anche chi, come me, non ha vissuto quei momenti. Chissà quanti ragazzi si sono avvicinati ai colori azzurri, o al calcio in generale, solo perché hanno visto i suoi video o perché hanno ascoltato delle storie raccontate dai propri genitori. Un campione del genere lo senti, anche se non hai avuto la fortuna di averlo visto all’opera.

Maradona non è stato un uomo perfetto, ha sicuramente commesso degli errori, per i quali ha già pagato, ma noi non siamo nessuno per giudicare la sua vita privata; è stato una leggenda e come tale va ricordato. Come ha commentato l’allenatore del Manchester City Pep Guardiola, “…non importa quello che hai fatto nella tua vita, Diego, importa cosa hai fatto nella nostra”.

 

Rossella De Simone

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