Black Friday: il vero “venerdì nero” di cui nessuno ci parla
Siamo giunti in quel periodo dell’anno che tutti noi aspettiamo. L’inverno è arrivato, Natale è alle porte, e, nonostante questa situazione particolare che stiamo vivendo, una pandemia che ha bloccato gran parte di attività ed eventi, non si ferma quello che tutti ormai conosciamo come Black Friday: una corsa all’ultima offerta, al prodotto più conveniente, al prezzo più stracciato. Una corsa che fa sicuramente bene all’economia, ma che quest’anno ha subito radicali cambiamenti, perdendo le sue tradizionali modalità. La chiusura totale di alcune regioni, infatti, la paura del contagio, il timore da parte della gente di incorrere in assembramenti, limitano la frenesia che, negli anni scorsi, faceva piacere ad ogni commerciante. E la stessa folla di gente che affluiva nei vari centri commerciali e nei negozi di paesi e città, in questi giorni si sta “accalcando” su internet, sui siti dei grandi colossi che tutti noi conosciamo. Tutto è diventato, in questo modo, ancora più facile: basta un click e “quelle scarpe che tanto desideravo”, “quel telefono che da sempre sognavo”, arrivano direttamente a casa. Una comodità che spinge ancora più gente all’acquisto ma che, a mio parere, non porta sicuramente a quel profitto che dovrebbe caratterizzare un’economia equilibrata, andando ad acuire ancor più quegli squilibri economici che il Covid ha determinato in questi lunghi e difficili mesi. Ad ogni modo il Black Friday, seppur nella sua grande valenza a livello economico, viene ad essere uno di quei fenomeni che incrementa e favorisce quella costante frivolezza che connota noi esseri umani, facili prede del consumismo, che non ci chiediamo nemmeno quale sia l’origine di un nome così particolare e misterioso per tale ricorrenza. In effetti, il vero Black Friday, quello del 18 novembre 1910, non ha nulla a che vedere con le vetrine colorate e con i prezzi scontati di oggi. Quello sì che fu un “venerdì nero” per la storia dell’umanità: a Londra da poco si era venuti a conoscenza della decisione del Parlamento inglese di rifiutare la proposta di legge a favore del suffragio femminile. Ed è così che 300 donne decisero di far valere i propri diritti, di scendere in strada e manifestare, incamminandosi verso quella che era (e tuttora è) la sede del Parlamento. Una manifestazione pacifica, che ben presto si tramutò nel peggio: i gruppi di donne che si avvicinavano a Parliament Square iniziarono ad essere insultate e maltrattate dai numerosi astanti e vennero sottoposte a violenze e abusi anche da parte delle forze di polizia. “Abbiamo visto le donne uscire e tornare con occhi neri, nasi sanguinanti, contusioni, distorsioni e lussazioni”, affermò Sylvia Pankhurst, attivista e politica britannica che guidò il movimento delle suffragette femministe del Regno Unito. Delle donne coraggiose, forti, determinate, capaci di tutto pur di ottenere la propria libertà e i propri diritti, perfino di mettere a repentaglio la propria vita. Sì, perché due furono le donne che morirono per le conseguenze di quel drammatico evento. Secondo la storica Caroline Morrell, il giorno seguente i giornali “si sono astenuti quasi all’unanimità da qualsiasi accenno alla brutalità della polizia”, concentrandosi invece sul comportamento delle suffragette.
La prima pagina del Daily Mirror mostrava una grande fotografia di una suffragetta a terra, colpita da un poliziotto, ma si cercò di spiegare la stessa foto facendo riferimento a un presunto crollo della donna per esaurimento. Lo stesso Winston Churchill, all’epoca ministro degli Interni, si rifiutò di indagare sulle accuse di brutalità della polizia. Il tutto si concluse, dunque, con una pesante sconfitta delle suffragette. Quello che doveva essere un modo di reclamare apertamente la propria dignità venne utilizzato dalla società maschilista del tempo come un’ulteriore offesa alla dignità stessa della donna. Basti pensare alla duplice umiliazione subita da Rosa May Billinghurst, “perché donna e perché disabile”: spinta in una strada laterale e solitaria, le vennero sgonfiate le valvole della sedia a rotelle, lasciandola così, sola, incapace di muoversi, di reagire. Si dovrà aspettare il 1918 per avere la prima, seppur limitata, apertura verso il voto femminile, e soltanto nel 1928 il suffragio verrà esteso a tutte le donne del Regno Unito. Eppure quel venerdì di novembre, seppur nel suo esito tragico, fu sicuramente fondamentale per il raggiungimento di questi obiettivi, perché è solo lottando che si può cambiare il corso della storia. Si sa: contrastare i pregiudizi, gli stereotipi e il maschilismo non è affatto semplice, eppure ogni singolo passo è fondamentale, ogni sconfitta è utile, e deve dare ancora più la forza di andare avanti. E queste donne, e in generale le donne, lo hanno fatto.
Giuseppe Secondulfo
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