“Meditate che questo è stato.”

Chimico, partigiano, antifascista, artista, sopravvissuto ad Auschwitz. Primo Levi,nato da una famiglia di origine ebraica, è colui che documentò le atrocità subite durante la detenzione nel campo di concentramento nel 1944. Uno scrittore dai tanti volti e dalle tante esperienze che si intrecciano all’interno dei suoi libri e delle interviste rilasciate.

Egli ha rivolto pagine e parole piene di disperazione, paradossalmente anche piene di vita a tutti noi perché “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Il trauma della libertà, l’esser stato ridotto al pari di un oggetto, o di un animale marcato da un tatuaggio indelebile, l’aver affrontato un estenuante viaggio di ritorno pur di rivedere la propria casa… tutto si intreccia all’interno delle sue testimonianze.

Levi utilizzava la metafora dei buchi neri per descrivere i lager, perché questi non emettevano la luce, ma la inghiottivano. Ed i persecutori erano “rotelle di un meccanismo” appartenenti  alla cosiddetta scuola nazista, “fabbrica di sudditi obbedienti”. Egli ha dovuto fare i conti con un trauma disumano, causato da uomini ad altri uomini per la semplice convinzione, da parte dei tedeschi, di essere al pari delle divinità e di avere l’obbligo di sterminare gli “Impuri”. Tra l’altro, il radicale razzismo antisemita si basava in primis su due argomentazioni: un antisemitismo “genetico”, che reputava il popolo ebraico come diverso dal volk tedesco, e un antisemitismo economico, che considerava la ricchezza ebraica come movente della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale.

In quei luoghi di morte perfettamente programmati e migliorati negli anni le ceneri dei corpi erano usati come fertilizzanti ed i capelli delle donne, una volta decedute, erano utilizzati chissà per quali scopi;  ai prigionieri mancava il cibo, ossessione di tutti, poi emergevano altre mancanze incolmabili ed irraggiungibili, non tanto la facoltà di decidere quanto la mancanza di contatti umani o la lontananza da casa…

La nostalgia, inoltre, riaffiorava nei momenti in cui erano negati i bisogni essenziali ed elementari, infatti lo stesso Levi dichiara che “La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie.”

Dunque, questa grande anima tormentata e portatrice di una memoria da non cancellare, con una lucida analisi, provò a descrivere il movente di certi comportamenti umani, riflettendo con interessanti considerazioni sulla natura umana. Ma non basta continuare a parlarne, occorre comprendere ciò che ha portato al verificarsi di tali orrori e far sì che ciò non si riproponga in nessun tempo e in nessun modo.

Non dobbiamo dimenticare una pagina così buia della nostra storia, dobbiamo studiarla, approfondirla, ed esserne così incuriositi a tal punto da saper oggigiorno riconoscere qualsiasi forma di razzismo e di discriminazione per poi additarla, scagliarci contro di essa ed essere capaci di diffondere solidarietà.

«Lei pensa che siano di nuovo possibili queste atrocità?» Levi risponde «Oggi come oggi certamente no. Ma dove un fascismo, un nuovo verbo come quello che amano i nuovi fascisti in Italia che propone una filosofia basata sul ‘non siamo tutti uguali’, ‘non abbiamo tutti gli stessi diritti’ o ‘alcuni hanno diritti e altri no’, dove questo verbo attecchisce, alla fine c’è il lager. Questo io lo so con precisione».

Sarebbe un vero e proprio traguardo per l’umanità poter dire, nel 2021, che i campi di concentramento siano ormai solo uno squarcio oscuro e vergognoso nella storia umana, impossibile da ricucire, impossibile da ripetere.

Ma la realtà, come sempre, non rispecchia le aspettative.

E come la storia, con il suo continuo ciclo, non smette mai di ripetersi, anche l’essere umano non si smentisce mai.

 Da qualche anno, infatti, si parla di ben 380 campi di detenzione in Cina. Vere e proprie prigioni fortificate e rintracciate dai satelliti dell’Australian Strategic Policy Institute. Qualcuno descrive questo evento come “la più grande incarcerazione di massa dalla seconda guerra mondiale”.

 Nuovi carnefici, nuove vittime, nuovi luoghi, ma stesso, empio modo di calpestare i diritti umani.

Questi campi di detenzione si trovano a Xinjiang, a Nord Ovest della Cina. Sono stati progettati per la minoranza uiguri, un’etnia di origine islamica, i cui membri vengono ogni giorno torturati e costretti al lavoro forzato, a bere alcolici, a convertirsi.

Questa congiura risalirebbe al 2001, anno della lotta globale al terrorismo islamico, con l’aumento della repressione del governo nei confronti degli uiguri, i quali praticavano un’attività indipendentista risalente alla prima metà del Novecento. Il tempo passa, nel 2009 si giunge a una serie di scontri tra uiguri e Han, abitanti cinesi dello Xinjiang.

 Inizialmente il governo ha tentato anche di negare l’esistenza di questi campi di detenzione, per poi arrivare a descriverli come programmi di formazione personale e rieducazione volontaria mirati a combattere il terrorismo.

Suona familiare, vero?

 Ma la vera domanda è chi accetterebbe, volontariamente, di farsi torturare? Di andare contro le proprie credenze? Le proprie abitudini?

Agghiacciante e tristemente efficace, proprio come ai tempi dell’Olocausto, è stata l’abilità dello stato cinese di nasconderci tutto questo. La stessa facilità con cui si nasconde la macchia di una parete ponendoci un quadro sopra. E stavolta parliamo di una macchia alquanto difficile da nascondere. Con la diffusione dei social network e la loro  indispensabile velocità, raramente capita che qualcosa di così imponente passi inosservata agli occhi di un mondo che, ormai, è in grado di guardare ovunque.

Passano gli anni, ma le carte del gioco sono sempre le stesse.

Proprio come i nazisti, anche i cinesi hanno optato per la censura.

 A diffondere la notizia dell’esistenza dei campi in Cina, infatti, sarebbe stata una ragazza americana che, proprio per aggirare la grande potenza orientale, avrebbe finto di postare un video di make-up su TikTok, per poi attaccare a parlare dell’orrore che si sta consumando tuttora a migliaia di chilometri da noi.

Purtroppo, il mostro della censura divorerà anche questo “scomodo” contenuto.

 Ancora più preoccupante è lo scetticismo perpetuo con cui le persone, al giorno d’oggi, affrontano questo tema. Provate a parlare di campi di concentramento in Cina per i musulmani. Le persone scuoteranno il capo, come se stessero cercando di allontanare dalla testa i ricordi del dopoguerra (e magari, ironia della sorte, non l’hanno neppure vissuto). “Ma dai, è impossibile”, “Nel 2021 non possono esistere ancora queste cose”, “Sei sicuro che sia vero? Su Internet circolano così tante sciocchezze.”

 E perché mai, tra tutte le sciocchezze di Internet, dovrebbe rientrare la notizia di uomini senza colpa torturati senza alcun motivo?

Non conta quanto sia rigido l’inverno, né quanto sia tremenda l’afa estiva. Per i semi del male ogni suolo è fertile, ogni debole è un bersaglio e ogni forte è un giocattolo nuovo di zecca. Non esiste un rimedio immediato per eliminare queste erbacce.

Ma ricordare, raccontare e agire, come prime mosse, possono portare molto più lontano di quanto non sembri.

Giò Barba e Claudia De Rosa VB cl.