“Per quanto mi riguarda, mio caro, preferirei che la mia lira fosse scordata, o stonato un coro da me allestito, e che una quantità di gente si dichiarasse in disaccordo con me, piuttosto che essere io, dentro di me, in disarmonia e contraddizione con me stesso” (Socrate a Callicle, nel Gorgia di Platone, 482b-c).

Negli scritti dell’allievo Platone spicca l’atipica personalità del filosofo dell’Atene del quinto secolo, Socrate. Per comprendere meglio la sua figura è necessario chiarire l’immagine che il filosofo vuol dare di se stesso:  un ignorante consapevole, che vede proprio in questa condizione il punto di partenza verso la conoscenza. Nell’Apologia Socrate infatti confessa: “Io non sono stato maestro mai di nessuno; soltanto, se c’è persona che quando parlo, desidera ascoltarmi, sia giovane sia vecchio, non mi sono mai rifiutato; […] io sono egualmente a disposizione di tutti, poveri e ricchi, chiunque mi interroghi e abbia voglia di stare a sentire quello ch’io gli rispondo”. Indicato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente tra gli uomini, egli occupava il suo tempo nel trasmettere la virtù dello scibile attraverso il metodo socratico. Massima apertura al dialogo e al confronto con gli altri e, allo stesso tempo, rifiuto di un qualsiasi ruolo di “guida” che lo ponesse al di sopra del proprio interlocutore.

Si serviva dell’ironia, che gli permetteva di far crescere il dubbio nella tesi dell’interlocutore, e della maieutica, l’arte della ricerca in se stessi della verità in modo tale che chi si rivolgeva a lui poteva tirarla fuori dalla propria anima.  Ciò gli costò l’ ostilità da parte di politici, poeti e artigiani che si consideravano ed erano considerati sapienti e che finirono per trascinarlo in tribunale con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani. Il processo, ampliamente trattato nell’ Apologia, terminò con la condanna di Socrate. Ed è proprio nella sua memorabile difesa che egli difende con coraggio i suoi ideali, mostrandosi, talvolta, consapevole di quale sarà la sua fine. Cercando di difendersi, Socrate confuta le tesi avversarie, si rivolge ai giudici interpellando qualche amico lì presente, ma non teme la morte. Essa si presenta infatti come un’assensa di sensazioni e segna il distacco dell’anima dal mondo sensibile, concreto, per raggiungere quello reale, sede di verità.  È dunque solo attraverso la morte che si giunge alla conoscenza e al sapere assoluto. La vita non è altro che il processo di formazione che ogni individuo deve percorrere con consapevolezza. Socrate lo dimostra proprio nei suoi ultimi istanti quando, bevuto il veleno che rallentava la circolazione del sangue, si rivolge all’amico Critone chiedendogli di immolare un gallo ad Asclèpio, dio della medicina. A lui i Greci erano soliti porre omaggio quando venivano guariti da una malattia e di qui la concezione socratica della vita terrena come una malattia e della morte come di una liberazione. “[…] Ma è già l’ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi di noi però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti”. 

Così Socrate può essere ritenuto il fondatore dell’etica e del razionalismo morale dal quale deriva una fondamentale conseguenza: se il bene è conoscenza, allora il male è ignoranza e ciò significa che nessuno compie il male sapendo di farlo; inoltre, è meglio subire il male che commetterlo. Quello che sarebbe opportuno chiederci è:”Socrate è davvero un esempio da imitare? E se sì, siamo davvero in grado di farlo?”  Egli ha rappresentato un modello con il sacrificio del bene più prezioso, la vita stessa. Noi possiamo seguirlo con la coerenza nelle nostre decisioni, con il rifiuto di ogni via di fuga, con l’accettazione di una condanna oggettivamente ingiusta: nel rispetto della legge, del vivere civile comune e dell’intera umanità.