ll Museo statale di Auschwitz-Birkenau, ubicato sul sito del campo di concentramento di Auschwitz a Oświęcim (in tedesco Auschwitz) in Polonia, ha scelto come tema delle celebrazioni che si sono tenute quest’anno per commemorare il 76esimo anniversario della liberazione del campo da parte delle truppe dell’Armata Rossa il destino di oltre duecentomila bambini e ragazzi sottoposti allo straziante martirio dell’Olocausto. Queste giovani vittime furono catapultate all’interno di una realtà terribile e sconosciuta e avevano dinanzi a sé due possibilità: la morte immediata nelle camere a gas oppure lo sfruttamento nei campi di lavoro. Nonostante le fragilità fisiche e psicologiche dovute alla giovane età, proprio tra i più piccoli ci furono numerosi sopravvissuti. Alcuni tra i superstiti erano italiani e hanno avuto la possibilità di testimoniare la storia di uno sterminio senza precedenti. Tra questi giovanissimi sopravvissuti possiamo ricordare Ida Marcheria, una ragazza triestina di quattordici anni che viene deportata nel 1943 insieme alla famiglia nel campo di Auschwitz –Birkenau. La sua è la prima famiglia di Trieste arrestata dai tedeschi, su segnalazione delle autorità italiane. Come tutti gli ebrei, una volta arrivata ad Auschwitz, Ida perde la sua identità e subito viene contrassegnata soltanto da un numero cucito sulla divisa e impresso a fuoco nella carne. Adesso lei è solo 70412. Ecco il suo nuovo nome. Per Ida l’incubo comincia con la separazione dai genitori e da uno dei fratelli, immediatamente condotti, dopo la selezione, alle camere a gas. Subito le viene detto che sono finiti nei crematori, che sono diventati fumo. Riesce a guardare la mamma fino all’ultimo istante, la osserva e non parla, non piange. La giovane si ritrova in balia del caso e delle decisioni dei suoi ‘padroni’. Come una bestia, è costretta a lavorare in condizioni estreme, a sopportare i continui ammonimenti delle Kapò e le fatiche fisiche aggravate dalle rigide temperature invernali o dall’estenuante afa estiva. Il suo campo di lavoro è chiamato ‘Canada’ e il suo compito è quello di raccogliere gli indumenti e gli effetti personali sottratti ai deportati. Il magazzino ‘Canada’ non è altro che un raccapricciante cimitero di oggetti: scarpe, valigie, bauli di ogni tipo. Secondo i nazisti, tutto deve essere riciclato e monetizzato; infatti tutto viene caricato sui treni e spedito in Germania. Ida ha anche un altro compito: fa parte del sonderkommando, uno speciale gruppo di ebrei che collabora con le SS assolvendo a diversi incarichi. È costretta a compiere azioni feroci, per niente adatte ad una ragazza come lei: accompagna i nuovi arrivati verso le camere a gas, infondendo in loro una vana speranza, rimuove i resti dei cadaveri dai forni crematori e rade i capelli delle donne uccise. Lei prenderà parte anche alla rivolta dei membri del sonderkommando che si ribellano alle autorità del campo di Auschwitz, uccidendo tre tedeschi e facendo esplodere un crematorio. Tutto questo la devasta. Dentro di sé ha l’inferno, non riesce più a provare emozioni: la speranza nutrita fino a questo momento si trasforma in rabbia e odio. Ida, come poi racconterà, è stata privata di tutto, ma quello che patisce maggiormente è sicuramente la malnutrizione. La razione di cibo distribuita all’interno del campo è scarsissima ed è costituita soltanto da acqua, pane raffermo e una brodaglia spesso avariata. I pasti non variano mai e non riescono mai a soddisfare il fabbisogno calorico giornaliero di un’adolescente in pieno sviluppo. Lei è sopraffatta dalla fame. Questo è il ricordo più vivo che le rimane del lager. Insieme ai suoi coetanei si diverte spesso a fantasticare sui cibi che più bramano: mentre gli altri desiderano pietanze elaborate e piatti abbondanti, l’unica cosa che lei vorrebbe assaporare dopo tanti mesi di digiuno è un pezzetto di cioccolato, di cui è sempre stata golosissima. Dopo due anni, il 27 gennaio 1945 anche per Ida arriva il giorno della liberazione. È stata forte, ha superato ogni ostacolo e non ha permesso che il suo 70412 contrassegnasse un altro dei cadaveri da aggiungere alla lista. Esce dall’inferno di Auschwitz e non è sola: con lei ci sono la sorella e un fratello. I tre fratelli ritornano a Trieste ma la loro casa è stata occupata da un fascista, che non ha intenzione di restituirla. Sono costretti a chiedere ospitalità ad alcuni conoscenti, per avere almeno un letto in cui dormire. La giovane prova a ricostruirsi una vita e a 18 anni si sposa, trasferendosi a Roma con il marito, dove vivrà fino alla morte, avvenuta nel 2011. Qui avvia un’attività di produzione artigianale di cioccolato, sulla spinta del ricordo della fame patita nel campo. Come molti altri sopravvissuti, Ida riuscirà a raccontare la sua storia soltanto molti anni dopo il ritorno a casa, a partire dal 1994. Il ricordo del supplizio non l’abbandona mai e questo non le permette di vivere fino in fondo  la vita che vorrebbe ricostruirsi. Il suo cuore si porta dietro un macigno, invisibile agli altri ma sempre più opprimente. Nonostante tutto, Ida è consapevole di essere fortunata ma allo stesso tempo dichiara che lei, così come tutti i reduci, è stata trasformata per sempre: “Non è possibile, dentro di me è tutto come allora: ci hanno distrutto prima la giovinezza, poi la vecchiaia. Ci hanno reso, per sempre, persone non normali.”

Ilaria Arcamone

Chiara Basile