Novembre è sempre stato un mese troppo freddo per starsene da soli. La pioggia accarezza le finestre, il vento trascina le nuvole grigie sui tetti delle case. Mi affaccio alla finestra, lascio che i capelli si bagnino. La città non è mai stata così bella, sì, anche se è novembre. I marciapiedi sono lucidi, somigliano agli specchi e l’aria profuma d’inverno. Dal quarto piano riesco a vedere gli ombrelli che colorano i vicoli e anche qualcuno che correndo cerca di coprirsi con il cappuccio del giubbotto. C’è chi si ripara sotto i porticati dei vecchi palazzi ed è quasi come se giocasse a nascondino con il cielo. Alcuni ragazzi camminano in gruppo, due si tengono la mano, altri quattro indicano le vetrine dei negozi, ridono, usano lo stesso ombrello. Alla mia Sofia piace uscire con la pioggia, quando ci sono le pozzanghere, oppure quando nevica. Lo scorso dicembre, nel cortile, abbiamo fatto un pupazzo di neve, con tanto di sciarpa e cappello. Anche se piove ed è novembre, oltre l’umidità c’è vita.

La signora Elena stamattina era di buon umore: si è svegliata prima del solito, la città era ancora illuminata dai lampioni, il profumo del suo pane avvolgeva tutto il quartiere. Anch’io mi sveglio sempre all’alba: prima di andare al lavoro mi piace spiare il sole che, timidamente, sveglia il paese. Mi ha portato la pagnotta migliore, era ancora bollente. ‘’Questa la devi assaggiare, Sara! Conservane un po’ pure alla piccolina, ce n’è anche per Leonardo. Lo vedo sempre correre, passa sempre davanti al panificio… Ora però scappo, che devo sbrigare i clienti!’’, aveva bisbigliato sulla soglia della porta, per non svegliare nessuno. La signora Elena è molto anziana ormai. A volte non riesce a impastare bene perché le fanno male le mani.  ‘’Io c’ho la vita mia nel forno’’, dice sempre.

Ero una bambina quando l’ho incontrata. Conosceva bene mamma, le portava sempre le focacce, quelle piene di olio che piacevano tanto a me e papà. Era una bella donna, Elena. Quando passava per il quartiere la guardavano tutti: aveva i capelli biondi sempre avvolti in una cuffia bianca, con i ricci che spuntavano sulla fronte e il grembiule sporco di farina. Sorrideva sempre, anche quando era triste. Con la pandemia è stato un attimo: quando ci siamo tolti le mascherine lei non aveva più trent’anni, mamma e papà non c’erano più, io ho addirittura preso la patente. La signora Elena ha sempre amato il suo lavoro, anche con le mani stanche. E l’abitudine di portarmi le focacce e il pane non l’ha mai persa, nemmeno ora che sono sposata e che ho una bimba che somiglia tanto a Leonardo. Per me è quasi come una mamma. ‘’Quando non ci sto più, non ti scordare di me’’, la solita frase prima di prendere l’ascensore e poi se n’è andata. Io, poi, penso: ‘’E come mi scordo di Elena…’’.  Chiudo la porta e metto la pagnotta rovente, avvolta con cura da un panno, nel forno. In punta di piedi, senza far rumore, mi avvicino a Sofia. Dorme ancora; così mi siedo accanto a lei, sul letto, e le accarezzo i capelli.

La camera è ancora in disordine: ieri abbiamo giocato fino a tardi. Mi piace vederla ridere, divertirsi, quando è felice. Di solito finisce che ci addormentiamo insieme sul divano, mentre le leggo una favola o vediamo i cartoni. Si appoggia alla mia spalla e iniziamo a chiacchierare. Mi racconta che le piace andare a scuola, che da grande sarà una dottoressa. Facciamo le smorfie, pettiniamo le bambole o andiamo al parco. Disegna, si sporca il viso con la pittura, cade dalla bici, poi si rialza e impara a pedalare sempre più veloce. Vedere Sofia crescere è forse ciò che temevo di non poter vivere nel 2020. Avevo paura di non poter mai più avere le cose belle della vita, quelle che contano davvero.

La pandemia non mi piace ricordarla, ha tolto troppo tempo, ha rubato troppe cose. Oggi, nel 2050, sembra un brutto sogno, qualcosa di surreale, difficile da credere. Nonostante i tanti anni trascorsi, ho ancora l’impressione di vivere in bilico, di convivere con una realtà precaria che, da un momento all’altro, può riservarci le più traumatiche disgrazie. Ero soltanto una ragazza, desideravo indipendenza ma, in fondo, non mi sentivo pronta. Volevo realizzarmi, anche se vivevo tra i ‘’forse’’ di un domani incerto. C’erano diffidenza, freddezza. Ci si sentiva persi in un vuoto enorme, attratti da un’apparente normalità che, però, nascondeva solitudine e insofferenza. Non ho mai dimenticato quanto ardentemente io abbia desiderato la vita che ho adesso, così bella quanto imprevedibile. Non ho mai più sottovalutato il calore di un abbraccio, di un sorriso, il piacere di andare a casa della nonna o di dire qualche volta in più che voglio bene ai miei genitori. Non ho mai più dato per scontata la felicità delle piccole cose che, alla fine, è anche quella più importante.

Oggi penso a quei momenti così difficili e li ringrazio. Con la mascherina, con la didattica a distanza, con i tamponi, la gente ha imparato cosa vuol dire vivere, quanto sia preziosa l’esistenza umana. Se guardo mia figlia, che un po’ forse mi somiglia, penso che ne sia valsa la pena, che c’è sempre una rinascita. Ho perso tanto, non sono andata a scuola per troppo tempo, ho visto i momenti più belli del liceo scivolare dall’inquadratura di una webcam, ho perduto anche i viaggi, la maturità, ho perso mio padre. Non ho vissuto cose che non si vivono due volte, ma ora, in compenso, apprezzo il pane della signora Elena, non mi stanco di corteggiare l’alba, ho la mia famiglia, un lavoro, una vita completa. Ogni giorno può essere l’ultimo e, anche se è novembre, ho tutto quello che mi basta.

Intanto, ha smesso di piovere. Fa troppo freddo, chiudo la finestra.

 

Asia Schettino, IV B classico