Fin dai primi tristi momenti della pandemia e anche ora che siamo in zona rossa, quando restare tassativamente a casa sembra quasi una condanna definitiva, a squarciare il grigiore delle giornate che si ripetono uguali, sono solo  loro, i riders.

Non è difficile, infatti, immaginare quanto l’economia e le modalità d’acquisto siano potute radicalmente cambiare con l’avvento del virus, provocando una progressiva e subdola perdita di contatto e di umanità anche nel mondo del lavoro e in particolare, in quei settori che a noi acquirenti sembrano i più semplici e veloci, quelli in cui con un click otteniamo in tempi brevissimi tutto quello che possiamo desiderare. Ma cosa si nasconde dietro questo “semplice” click? È davvero tutto così leggero e rapido come appare ai nostri occhi? A quanto pare no, non per i nostri “riders”. Moderni cavalieri (secondo la traduzione letterale) che, incuranti della pioggia, del vento e del contagio, a cavallo dei loro  “destrieri”,  consegnano a domicilio tutto ciò che la necessità o la fantasia più sfrenata rendono improcastinabile e necessario alla sopravvivenza ai tempi del coronavirus, tra le mura della nostra casa.

Appaiono fugaci e veloci, professionali, più o meno gentili ed anche piacevolmente colorati con i loro zaini e cappellini coordinati, a conferma dell’unica certezza di questo periodo di totale precarietà: il rispetto dei tempi di consegna! Così, se la pandemia descrive intorno a noi un mondo di incertezze e di speranze sbiadite, scarsamente rinvigorite da un programma vaccinale che stenta ad eseguirsi in una modalità davvero risolutiva, possiamo, però, esser piacevolmente rassicurati dalla certezza che quanto abbiamo ordinato arriverà nel tempo e nel modo richiesti.

Ciò che invece non sappiamo è che dietro questa puntualità e dietro la possibilità di essere riforniti di qualunque cosa direttamente a casa nostra, ad ogni ora del giorno e della notte e persino di domenica, si cela un quadro lavorativo oscuro e carico di sfruttamento.

Senonché, gli scioperi proclamati nell’ultima settimana di marzo, a stretto giro, dai dipendenti di Amazon e dai riders, hanno infranto anche l’ultima nostra certezza, imponendoci finalmente di riflettere su quanto quel nostro semplice click, ripetuto anche più volte in un solo giorno, possa aver determinato conseguenze economico-lavorative davvero imponenti, che ricadono direttamente sulla vita di tanti lavoratori. Scopriamo, così, che termini come “Gig Economy” e “App Economy” – piattaforme online di food delivery- o anche come “riders”, mascherano, con il loro appeal esotico, situazioni di sfruttamento caratterizzate da precarie condizioni di sicurezza, inadeguatezza retributiva, ritmi di lavoro e turnazioni non controllate e sfiancanti, a carico di quelli che possono essere ormai definiti “braccianti metropolitani”. Scopriamo così che nostri i “moderni cavalieri” devono definirsi, più prosaicamente, dei ciclofattorini, il cui contatto con il datore di lavoro viene gestito, tramite un’applicazione e un pc, sin dall’incarico, conferito a seguito di un mero contatto telefonico. Ogni tipo di interazione e contatto umano vengono azzerati: tutto quel che conta è che i riders abbiano una bici o sappiano guidare un motorino e che dispongano di uno smartphone.

La situazione che appare ai nostri occhi potrebbe far pensare alla classica figura del fattorino che tradizionalmente consegna la pizza ordinata telefonicamente il sabato sera alla nostra pizzeria di fiducia o, ancora più romanticamente, alle immagini di quei film americani degli anni Cinquanta con il teenager che, percorrendo gli ampi viali che separano le villette a schiera, lancia con millimetrica precisione il quotidiano sull’uscio della porta. D’altra parte, non era forse questa la Gig Economy, intesa come l’economia collegata ai “lavoretti”  di quei giovani studenti che sceglievano nel tempo libero di impegnarsi per emanciparsi dalla famiglia?

La realtà lavorativa dei riders odierni, è, invece, ben diversa. Il loro datore di lavoro non è il singolo esercizio commerciale, il nostro simpatico e paterno pizzaiolo di fiducia, ma una piattaforma online di food delivery, di consegna di cibo a domicilio che, abilitando interazioni fra produttore e consumatore, garantisce consegne h24 , secondo meccanismi differenziati ma del tutto virtuali. Conoscendo meglio il meccanismo che governa tale rete di lavoro, già possiamo renderci meglio conto del fatto che manca una reale tutela e attenzione nei confronti dei lavoratori che vi sono coinvolti. Ne è dimostrazione il fatto che essi hanno recentemente protestato contro l’Accordo  firmato il 16 settembre scorso  fra AssoDelivery e il solo sindacato UGL (Unione Generale del Lavoro), accordo che costituisce il primo contratto collettivo nazionale di categoria che ha, però, riconosciuto ai riders solo talune garanzie ed indennità, ma che non li ha inquadrati come lavoratori subordinati, non garantendo loro le fondamentali tutele previste per i dipendenti, come ad esempio le ferie e la malattia, benché il loro lavoro appaia del tutto eterodeterminato.

A quest’onda di rivendicazioni sindacali hanno preso parte anche, per la prima volta, i dipendenti di Amazon. “I drivers arrivano a fare anche 44 ore di lavoro settimanale e molto spesso per l’intero mese. Si toccano punte di pacchi consegnati al giorno, ma nessuna verifica dei turni di lavoro. Nessuna contrattazione né confronto con le organizzazioni di rappresentanza sui ritmi imposti”. Sono queste le parole dei sindacati, che, come un vero e proprio grido di denuncia, ci aprono gli occhi di fronte a quello che potremmo definire il fallimento di tutte le conquiste che in termini di dignità e sicurezza del lavoro, ci hanno consegnato le lotte sindacali del secolo scorso. I dati ci sveleranno se e in quale misura i consumatori abbiano aderito all’appello dei sindacati di non effettuare prenotazioni ed acquisti nella giornata della protesta e solo il tempo ci darà una risposta sul risultato di queste nuove lotte. Intanto, si apre ai nostri occhi uno spunto di riflessione importante che ci permette di renderci realmente conto della gravità di tali condizioni lavorative. Ci auguriamo che tale consapevolezza collettiva possa realmente portare alla fine di questo tipo di modalità di lucro che invece di agevolare i dipendenti che ogni giorno realizzano un guadagno con il loro lavoro, li sfrutta e li espone progressivamente. Ci fa ben sperare, da questo punto di vista, l’accordo concluso da Just Eat con i sindacati, per l’assunzione, come lavoratori dipendenti, di circa 4000 riders.