Napoli mia: racconto di Carmela Pucillo
“Carmè?”.
Bastava poco per distruggere l’armonia tanto suscettibile del mio piccolo mondo, e questo era un modo.
Mi veniva imposto di ritornare alla realtà, che però mi faceva paura: da quando era iniziata la guerra, la mia anima aveva voglia di risuonare come quel frastuono assurdo provocato dalle bombe.
“Ue Carme’ fa ‘mpressa, ce n’ amma jì.”
“Eccomi. Sono pronta.”
La mia nuova casa si trovava in un vecchio palazzo a Via Caracciolo, sul mare per fortuna. Sebbene desse l’impressione che, ad ogni folata di vento, volasse insieme a quest’ultimo, almeno era luminoso e mi riempiva i polmoni con l’odore della salsedine, e questo mi bastava per dimenticare la mia identità. La gente a Napoli è piena di segreti, e da questo punto di vista, mi ero integrata perfettamente anch’io. “Carmela” era la forma cristianizzata del vero “Karmel”, il nome che mi faceva sentire speciale, in mezzo ai miei compagni cristiani, ma avevo dovuto trasformarmi anch’io in una di loro. A malincuore, sì, ma tra il cambiare identità e perdere la mia vita, avevo preferito la prima: la guerra aveva soffocato moltissime anime simili alla mia, e non volevo essere fra quelle. Avevo cercato una strada diversa da quella di Rivka, la mia migliore amica che in Polonia mi aveva fatto giurare che non l’avrei mai lasciata sola. Ma fu lei a lasciare me, quando un giorno le SS iniziarono a tirarla per le braccia e la caricarono non so dove, mentre io ero dall’altro lato della strada che la aspettavo per raccontarle di quello strano amore che la vita mi aveva risistemato sul cammino. Tuttavia quella scena tanto fredda e desolata, aveva cancellato ogni emozione dal mio cuore. Dal momento in cui la vita mi aveva imposto con la forza quella orribile mancanza nell’animo, credevo che non sarei nemmeno stata più in grado di guarire quella ultima, estrema e stremata parte di me. Al suo posto avrei potuto esserci io, ma ero stata fortunata, quasi quanto egoista. Fu dal quel momento che la mia mente, nel buio della notte, iniziò a ripetere ed a urlare nelle mie tempie, che Rivka doveva essere la mia salvezza, e non potevo sprecare assolutamente i suoi occhi freddi e grigi fissati nel mio sguardo, per rassicurarmi, quella orribile serata di agosto, quando tutto intorno era buio, silenzioso, e triste, forse a causa del coprifuoco, forse a causa dei morti. C’ero solo io in un angolo segnato da mattoni grigi, a piangere, con le mani sul volto, le lacrime che mi asciugavano la sete, e i vestiti sporchi per quell’infantile terreno, dove avevo sempre corso con lei.
Fu dopo quella notte che decisi di dover salvare almeno la parte meno rovinata di quella mia persona, ormai incolore e sola. Fu dopo quella notte che pensai a Napoli, all’idea di trasferirmi da una sorella di mia madre. Anche mia madre, così come Rivka mi aveva detto addio, senza darmi nemmeno il tempo di far assorbire quella orribile notizia alle mie viscere.
Da quella notte nel mio cuore ci fu spazio solo per il mio sangue circolante, trainato a sforzo dalla vene e dalle arterie. Non avevo concesso più a nessuno, di lasciarsi riscaldare dalle calde fibre delle mie emozioni, dei miei sentimenti, né tantomeno dei miei affetti. E mi andava bene così, per i primi mesi.
Quel lungo viaggio mi aveva fatto male, ma ero finalmente in Italia, finalmente a Napoli. Da piccola ci andavo soprattutto durante le feste, e per fortuna ero anche stata in grado di assorbire qualche parola in dialetto napoletano. Magnifico.
Se c’era una cosa che amavo di Napoli, era il modo in cui restava esattamente la stessa, con tutte le sue ferite, camminava sempre a testa alta, anche quando le imponevano di fissare lo sguardo al suolo. Napoli era un accumulo di paure. Trent’anni dopo una voce aveva riempito i vicoli e le gole della gente, che, a pieni polmoni gridava: “Napule è nu sole amaro. Napule è addore e’ mare. Napule è na’ carta sporca, e nisciuno se ne importa.” E avevano ragione. La gente nella magnifica Partenope temeva di essere dimenticata, e faceva a pugni per affermare la propria vitalità, le proprie parole ed i propri colori. Proprio come desideravo di rifare anche io. Ma tutto mi andava male, giorno dopo giorno, correndo contro il tempo che incalzava, inciampavo su un pezzetto di me, perso lungo quelle strade. E mi tormentava la paura di diventare un ratto chiuso in quattro mura spietate. A 17 anni, avrei dovuto preoccuparmi di altro e, invece, capii che il mio riflesso allo specchio non era altro che un accumulo di materia che di lì a poco avrebbe fatto esplodere i propri atomi. Ero tormentata dalla paura di dover dire addio alla mia libertà, ai miei soli e ai miei tramonti.
Solo la solitudine, egoisticamente, si era proposta di tenermi la mano.
Napoli, primo fra tutto, era meraviglia. Nemmeno il terrore delle bombe era riuscito a svuotare quelle strade, per fortuna. C’era chi correva urlando qualche nome con il terrore incastrato fra le palpebre (“Anto’, maro Anto’ aro staje”). E a me, lungo quei gradini pesanti, che sembrano confluire perfettamente in mare, non restava altro che fissare le fresche vesti che accarezzavano il vento, mentre si allontanavano sempre più da me. C’era qualche bambino fortunatamente incosciente ed estremamente attento a non farsi trovare fra quei rovi, che da disastro erano diventati giochi.
Stavano per ritornare l’autunno e le brevi giornate. Era il 27 Settembre, mia zia aveva fatto venire Natale prima del tempo con tutta quella farina, per impastare il pane, già da prima mattina, quando la casa odorava ancora di caffè caldo che si contrapponeva al fresco dei polmoni mattutini.
La mia quiete era stata di nuovo turbata: un frastuono assurdo mi aveva distratta dall’osservazione quasi ossessiva di quei particolari. Mi affacciai dal finestrone, credendo che i vicini stessero nuovamente discutendo. E invece no. Tutta Napoli stava discutendo, con i Tedeschi. Dai ricami della bianca tendina avevo visto il mio terrore diventare materia: il vetro era l’unica cosa a separarmi dalle paure e dallo strazio che venissi riconosciuta per ciò che ero, un’ebrea. La gente era lì, i bambini correvano per le strade cercando di schivare i colpi, per non segnare l’autogoal della propria vita. Nel frattempo, le armi e i Tedeschi si avvicinavano sempre più: le mie ansie erano lì, pronte a citofonare alla mia porta. Ma anche la mia Napoli era lì, pronta a rischiare la vita per salvare quella di qualcun altro, e conservare a denti stretti i propri concittadini. Persino il mare non ne poteva più, ed aveva iniziato a ribellarsi contro gli scogli con fare minaccioso, accompagnando a tempo la danza rumorosa dei mobili che precipitavano dai balconi, da cui si tuffavano nell’aria i panni ancora umidi e profumati di bucato.
Non c’era cosa che i napoletani si erano serbati di non far piovere dai balconi. Impressionante. Spari su spari. Urla su urla. Morti su morti.
Passarono 4 giorni, e Napoli era ancora a testa alta. Un po’ ammaccata, ma in piedi. Aveva esaurito persino i Tedeschi. Mi sarei inchinata ai piedi al Vesuvio. Quella città si era liberata da sola, col valore della gente innamorata della vita. Un incanto; a pensarci ora, a distanza di anni.
La guerra mi aveva interposto fra le vertebre persino la paura di dormire, di chiudere gli occhi per un secondo. Aveva colmato il mio cuore di dolore, di ansia e di sconforto. Spesso, durante la notte, il cuore mi tremava in gola e mi chiedeva protezione, le lacrime cercavano di tenersi compagnia fra loro, mentre io mi legavo sempre più alla solitudine. Però ero a Napoli, che mi aveva salvata dal quell’orrore che mi spettava perché ero nata sotto la stessa sbagliata, quella di David.
Giuro di aver consultato tutte le mappe, le bussole e gli astri nella speranza di ritrovarmi in quel deserto che si era spianato intorno a me.
Non credevo che nel mondo esistesse realmente qualcosa del genere. Avevo sempre accuratamente coltivato il mio orto di pace e serenità, sbarrato scrupolosamente dalla guerra che apparteneva ad altri. Mentre ora era lì, a portata di finestra.
Per fortuna, però, la mia voce interiore non mi aveva mai abbandonata, era diventata il punto di incontro fra la realtà e la mia salvezza, avevo ritrovato in me stessa quello che credevo dovesse provenire dagli altri: la forza di darmi coraggio. Me lo ripetevo di continuo. “Attenta. Diamine. Attenta a non cadere da quel filo spinato, che aldilà della guerra e delle bombe, è l’unica piccola scia che ti lega, ti distrugge, e ti accende nell’animo i pensieri e i sogni. Attenta a non farti fare del male, lascia che ti portino dentro solo la quiete e la melodia del tuo mare.”
Ero sempre stata soffocata dalla solitudine, sia dentro che fuori. Quel filo magnificamente pungente aveva via via graffiato le mie pareti interiori, ma fu proprio attraverso quelle dolorose fessure che l’aria, la vita, il sole e l’amore avevano potuto finalmente far ritorno in me. E mi andava molto meglio così.
In seguito a quel doloroso capitolo capii che la mia vita era degna di essere vissuta, che nessuno mai si sarebbe curato di restituirmi indietro i miei giorni. Nessuno, nemmeno quelli che si stavano impegnando nel distruggerli. Se mi era stato concesso il dono della vita, era perché, indipendentemente dalle pieghe che aveva assunto nel suo trascorso, spettava a me, spettava a Karmel condurla ed onorarla sino all’ultimo respiro. Avevo capito che, dal momento in cui la vita decideva di accarezzarmi, non restava altro che porgerle la mia guancia. E sì, tutto quel frastuono mi aveva uccisa, ma sapevo che, da qualche parte, era ancora conservata la vecchia me, quella che si rialzava da sola, che guardava alla vita con gli occhi da bambina e che credeva ancora alle cose belle. Era quello ciò a cui aspiravo, e giuro che mi sarebbe andato magnificamente così. Era incredibile con quanti pugni la vita mi avesse ammaccata qua e là, ma col tempo sarei guarita, e non mi restava altro che l’attesa di essere cullata dolcemente fra le braccia dei miei giorni. Se la guerra mi aveva scalfita? Sì. Ma dopo una cattiva notte, risorge sempre il sole, e io con lui.
Avevo appena 17 anni, ed era troppo presto per non affacciarmi sui sogni, a causa di qualcun altro che aveva scelto di scegliere per me. L’uomo ha sempre bisogno di toccare il fondo, nella speranza di riemergere rimbalzando a contatto con il male. E così decisi di essere l’unica autrice della mia storia, delle mie giornate e dei miei ricordi. I tormenti, le paure e i terremoti interiori sono parte integrante della vita umana, e all’uomo non spetta altro che tenere duro, lottare e stringere la presa. Come mi avevano insegnato Napoli, il mare e la musica.
Bastava non demordere per non essere sbranato; bastava guardarsi allo specchio e passare in rassegna i propri errori per far chiarezza sulle proprie ragioni. La guerra mi aveva riacceso nel cuore la voglia di non passare dalla parte di chi perde. Di lì in poi fu tutto un sacrifico, fino allo strazio. Per dimenticare i miei mali avevo dovuto ricordarli e soffrirli giorno dopo giorno, fino a che iniziarono a sbiadirsi. Durante la guerra avevo perso molto, moltissimo di me. Ma avevo ritrovato l’unica cosa di cui avevo bisogno: il valore della vita. Fui fortunata perché il ricordo dell’amore che provavo per quest’ultima, quando ero in Polonia e lontana dalla guerra, iniziò improvvisamente a correre con le braccia aperte verso la mia mente, e così fui finalmente in grado di ritornare a respirare il mio ossigeno e a rivivere i miei giorni. D’improvviso ricordai che a’ vita è una sol’, e lottai affinché nessuno mai se ne dimenticasse, soprattutto nei momenti in cui essa stessa decideva di sfoggiare i propri dolori peggiori.
(1° premio concorso “V. Rispo”, Liceo Garibaldi, Napoli)
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