“Le nostre vite finiscono quando tacciamo di fronte alle cose davvero importanti”, affermava Martin Luther King.

L’omertà e l’indifferenza non portano mai a nulla di buono: i più tristi eventi storici sono accaduti nell’indifferenza generale, soltanto perché “tanto non riguarda me”. E ancora oggi questo è l’atteggiamento che generalmente prevale. Basti pensare a quello che sta accadendo in Lipa, in Bosnia, ignorato da molti anche perché i giornalisti hanno dato maggior rilevanza ad altri eventi e problematiche.

Tutto inizia il 23 dicembre 2020 in seguito a un incendio; ma procediamo per gradi. A Lipa c’erano campi profughi costruiti per accogliere gli immigrati, uomini, donne e bambini, provenienti da paesi come il Pakistan, l’Afghanistan e il Bangladesh, paesi dove la guerra è una tragica realtà sempre viva. Vivendo sicuramente, nel campo, in una condizione molto disagiata, con carenza di cibo e igiene praticamente inesistente, gli immigrati hanno provato a fuggire nei paesi confinati con la Bosnia, quindi verso l’Italia, la Slovenia e la Croazia, da cui però, forse per motivazioni politiche oppure a causa dell’epidemia che stiamo affrontando, sono stati rimandati indietro, nei campi, nonostante si sapesse bene a cosa andavano incontro. Ma dopo l’incendio del 23 dicembre scorso, causato dagli stessi migranti, questo campo viene considerato come una sorta di olocausto moderno, una realtà a noi vicina, ma di cui si parla ancora troppo poco.

Ci sono pervenute testimonianze orribili. Basti pensare alla storia di Alì, un giovane tunisino. Alì, volendo raggiungere il figlio in Germania, si è fermato in questo campo profughi da cui ha provato a scappare per ben sette volte, raggiungendo il confine della Bosnia. Lì è stato sempre aggredito dai cani, di cui portava i segni sulle gambe martoriate. Ma ha insistito: l’idea di poter riabbracciare il figlio gli ha dato la forza di continuare a provarci. Così ha percorso nuovamente il bosco verso il confine con la Croazia; ma è proprio qui che accadrà il peggio. Le guardie croate lo hanno preso e colpito ripetutamente con i manganelli: Alì vede il rosso del suo sangue brillare in mezzo alla neve gelida del bosco. Poi lo lasciano andare, ma gli tolgono le scarpe. Costretto a camminare nel gelo a piedi nudi, senza abiti adeguati, malnutrito, Alì in un modo o nell’altro riesce a fare rientro nel campo, ma ormai in ipotermia. Così è stato portato in ospedale dove, dopo 9 mesi di agonia, si è spento, senza poter dare un ultimo abbraccio al suo bambino.

Ci è pervenuta, inoltre, la testimonianza di Pietro Bartolo, l’ex medico che, dopo aver visitato questo campo sormontato da un recinto metallico, ha voluto sollecitare la politica europea a cambiare rotta quanto prima: pur avendo affrontato una situazione di emergenza come la pandemia, l’Europa non riesce a dare a queste persone un futuro e una vita decorosi.

Oltre a queste due testimonianze, ce ne sono sicuramente tante altre che però non hanno ancora voce, testimonianze di cui probabilmente non verremo mai a conoscenza poiché, a differenza di quanto accaduto ad Aushwitz, non c’è sensibilizzazione né interesse riguardo questo argomento: alcune persone, che non ne sono a conoscenza, vivono nell’inconsapevolezza; chi invece ne è consapevole, vive nell’indifferenza considerando questa come una realtà lontana. Dovremmo invece ricordare e far ricordare queste situazioni terribili per evitare che si ripetano, per garantire a chi si troverà a vivere situazioni simili a queste, la dignità e i diritti fondamentali riconosciuti a ogni persona dalle diverse Dichiarazioni universali dei diritti umani e dalle diverse costituzioni, certi che, così, come afferma Cicerone, “Historia magistra vitae est”, la storia è maestra di vita (De oratore II, 9).

Tullia Lorenzo e Mariapia Vitiello

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