Ore 11.10, suona la campanella e comincia l’intervallo al liceo Pitagora-B. Croce.

Se nel giro di questi 10 minuti ,tanto agognati dagli studenti, ci si affaccia nelle classi, lo spettacolo che si avrà di fronte, nella maggior parte dei casi, sarà sempre lo stesso: un gruppo ampio di 15/20 persone che interagisce, si diverte, scherza e un gruppo più piccolo, che squarcia l’idea di insieme, composto da 2, nei casi più fortunati 3 persone, che consumano mestamente il loro spuntino tra una chiacchiera e l’altra in un angolino della classe, quello dove poter essere meno d’intralcio senza dare fastidio a nessuno. Certo, non manca il caso più triste; quello in cui non abbiamo il gruppetto composto da 2 o 3 persone che almeno si sostengono a vicenda, ma vi è solo una persona , che magari finge di ripetere la lezione successiva solo per dimostrare a chi lo vede (e anche un po a sé stesso) che la condizione di solitudine in cui riversa è voluta, a causa dello studio , e non dipende dai compagni. Più volte mi è capitato, dialogando con gli altri studenti, di avere a che fare a con la parola “soggetto“, usata, ahimè,  in senso dispregiativo. “Quel ragazzo è un soggetto” – “Ma guardala! Si veste come una soggetta“- “Hai visto cosa ha fatto? Si comporta proprio da soggetto “. Da ciò che ho ascoltato sono giunta alla conclusione che questo termine, in queste situazioni, indica una persona considerata strana, sicuramente fuori dal comune, nei modi, negli atteggiamenti, nei discorsi. Eppure cosa stabilisce che una persona è soggetta?

In base a quale criterio la società, studentesca e non, classifica le persone in soggetti e non soggetti, in “nuova conoscenza” e “da evitare”? La risposta è molto facile, ma allo stesso tempo terrificante nella sua semplicità. Sono soggetti tutti coloro che scelgono coraggiosamente di essere se stessi; coloro che se non hanno voglia di uscire o di andare alle feste non lo fanno, che non amano sbandierare la loro vita sui social e preferiscono un rapporto reale col prossimo rinunciando ad interagire a distanza, coloro che rinunciano ai vestiti “di tendenza” se non li fanno sentire a proprio agio, coloro che hanno dei principi e non li gettano al vento se non coincidono con quelli della massa, coloro che non danno importanza alle apparenze, che preferiscono stare dietro le quinte piuttosto che sul palcoscenico, che preferiscono vivere in punta di piedi piuttosto che batterli a terra per attirare attenzione, coloro che alla domanda “perché fai questo?” non rispondono: “perché lo fanno tutti”. Il prezzo per essere tutto ciò, per essere se stessi e quindi liberi, è molto caro; ti costa una vita sociale, ti costa il sentirti accettato dai tuoi coetanei. Non è giusto dover fare delle scelte subendo l’influenza della massa e temendo che ,non seguendo la tendenza generale, si rischi la solitudine. Mi sovviene la frase di un ragazzo, il quale, dopo avermi raccontato di un triste trattamento ricevuto dai  suoi compagni che l’hanno escluso, mi dice che se fosse stato come i due ragazzi più “popolari ” della sua classe questo non gli sarebbe successo. Abbiamo  quindi il caso di un ragazzo che arriva a rinnegare la sua personalità sentendo di avere qualcosa in meno rispetto agli altri. 

Un altro avvenimento sconcertante ,che mi ha fatto riflettere molto, è stato lo sfogo di un ragazzo, che in un momento di debolezza, mi ha raccontato che avrebbe voluto cambiare classe solo per il fatto che,  così facendo, sarebbe stato come vivere un nuovo 11 settembre, ricominciando da capo e indossando un ‘altra maschera ,un’ altra personalità che, magari, porti i suoi frutti a differenza di quella usata con la sua odierna classe e che l’ha portato ad essere catalogato come soggetto. “Soggetto“, ma che brutta parola, che si insinua tra le labbra e fuoriesce con una spontaneità inaudita storpiando le menti. Quante volte l’abbiamo usata? E quanti altri casi di ragazzi che soffrono perché non accettati esisteranno?

Eppure la scuola ,anche attraverso incontri con psicologi ed educatori, ha sempre cercato di promuovere l’inclusione e di celebrare la bellezza nelle diversità. Il problema è la costante paura del confronto e del diverso che oggi, nella società dell’ipocrisia e delle apparenza, è insinuata in noi giovani; non vediamo nel confronto un vantaggio per migliorare la nostra esistenza , ma una prova che ci rende vulnerabili perché mina le nostre certezze e convinzioni, mettendole in discussione. Al giorno d’oggi , non contempliamo l’idea di poter sbagliare, ci crediamo i detentori della verità assoluta: chi è diverso da noi , sotto qualsiasi punto di vista, è automaticamente in errore. Dovremmo capire che ognuno di noi ha un modo di essere ed una personalità unica che non dobbiamo mortificare , sopprimendola e occultandola con una maschera per essere a tutti i costi come la massa, seguendo mode e convenzioni.

La capacità di confrontarci con chi non la pensa come noi è un privilegio prezioso che è concesso a noi uomini e che dobbiamo imparare a sfruttare per crescere e migliorarci sempre. Non dobbiamo aver paura della diversità, perché mettersi in discussione , anche ogni giorno, non è mai un male. Solo quando capiremo questo potremo essere tutti degli splendidi soggetti, tanti piccoli frammenti unici nel loro essere diversi, che solo insieme ed uniti possono formare uno mosaico di bellezza. Stando a quanto avviene oggi, però, quel giorno sembra ancora molto lontano.