Il 26 giugno è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge “recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario”, nota come ‘autonomia differenziata’.

Il nostro presidente del consiglio Giorgia Meloni ne parla in questi toni trionfalistici: “L’autonomia differenziata è un provvedimento che unisce l’Italia, che combatte le disparità, che rende la nazione più forte e più giusta su tutto il territorio nazionale”. Le opposizioni si sono invece schierate nettamente contro al provvedimento, tanto che hanno indetto un referendum abrogativo che ha subito raccolto oltre 500.000 firme. Elly Schlein, leader del Partito Democratico, principale forza di opposizione, ha affermato che “Giorgia Meloni si definisce patriota, ma sta varando una legge che spacca l’Italia”.

Verrebbe da chiedersi cos’è davvero questo provvedimento che sta tanto polarizzando il dibattito politico e che, se entrerà effettivamente in vigore, cambierà radicalmente il sistema del nostro paese, con una visione regionalista quasi mai applicata in oltre 160 anni d’Italia unita. Questa legge ci racconta molto di noi, tanto che nel suo lungo iter di approvazione è stata caratterizzata da ipocrisia, miopia e squisita incompetenza: la storia di un paese.

In cosa consiste?

L’autonomia differenziata è una legge ordinaria che prevede l’attuazione del titolo V della Costituzione, risalente al 2001, in merito alla possibilità da parte delle regioni di chiedere particolari forme d’autonomia in 23 materie, tra cui rientrano: sport, ambiente, cultura, infrastrutture, trasporti, ma anche addirittura energia, protezione civile, tutela della salute, rapporti con l’UE ed istruzione. Insomma, nel calderone c’è praticamente dentro di tutto. Ogni regione può chiedere autonomia su alcune ( o tutte) queste materie dopo negoziazioni fatte con lo stato centrale. Quindi, potenzialmente, per fare un esempio, il Piemonte potrebbe essere autonomo in materia di energia, le Marche in materia di trasporti e ambiente e la Calabria sull’istruzione (ecco spiegato il nome autonomia differenziata). La durata dell’autonomia è di 10 anni, al termine dei quali dovrebbe esserci un rinnovamento automatico di essa.

La legge prevede, per 14 delle 23 materie, dei livelli essenziali di prestazioni (LEP) che costituiscono dei livelli minimi di servizi che devono essere forniti ai cittadini in merito alle materie eventualmente richieste dalle regioni, ma che non sono ancora stati individuati per l’oggettiva difficoltà di farlo.

Per ogni funzione delegata alla regione, lo stato dà dei soldi ad essa che provengono dal gettito nazionale incassato nella regione stessa. Quindi si tratta di cosa ben diversa dal federalismo dove ci sono direttamente delle imposte regionali, tracciabili e con possibilità di verifica. Cosa che non prevede la legge in analisi.

Le voci dei sostenitori e dei contrari

La legge è stata approvata dall’attuale maggioranza governativa composta da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega. Era però caldamente voluta soprattutto dalla Lega di Salvini, partito erede della Lega Nord che negli ’90 combatteva per l’indipendenza della Padania (ossia l’area più ricca del paese, dall’ Umbria in su). Abbandonati i propositi secessionisti, la Lega ha capito che era più facile distruggere dall’interno lo stato piuttosto che abbandonarlo e ha cominciato da anni una battaglia per le autonomie regionali. Secondo costoro, la legge porterà ad una maggiore efficienza degli enti locali, più consapevoli delle sfide dei territori, per evitare sprechi e responsabilizzare le amministrazioni più inefficienti, incoraggiandole a una gestione più oculata delle risorse (con riferimento alle regioni del centro-sud).

I contrari, essenzialmente le opposizioni ma anche diverse regioni (anche alcune guidate dalle forze di maggioranza hanno espresso perplessità, come ad esempio la Calabria) sostengono, innanzitutto, che la riforma spaccherà la nazione in due, favorendo il settentrione. Infatti le regioni che chiederanno l’autonomia sono al momento due, Lombardia e Veneto, le due regioni più ricche d’Italia che attualmente pagano all’erario più soldi di quanti ne ricevono.

Attualmente, infatti, le risorse vengono in parte ridistribuite ai territori più poveri (essenzialmente il meridione), che dispongono di pessimi servizi pubblici. Con l’entrata in vigore dell’autonomia queste regioni potrebbero ricevere ancora meno risorse che le renderebbero forse invivibili. I LEP che dovrebbero garantire il livello minimo di servizi ai cittadini non sono sufficienti a tranquillizzare i contrari, dato che la riforma ne prevede l’istituzione ma non il finanziamento. Non è chiaro quindi come lo stato finanzierà le regioni che saranno sotto i livelli minimi, dato che si ritroverà con molte meno risorse nelle tasche, perché trattenute dalle regioni più ricche. Quindi, in sostanza, le alternative saranno due: aumentare la pressione fiscale (a danno anche delle regioni più ricche che volevano trattenere maggiori risorse) o aumentare il già gravoso debito pubblico.

Inoltre se le regioni più ricche chiedessero l’autonomia su temi come l’istruzione, potrebbero offrire agli insegnanti e ad altri dipendenti pubblici stipendi più alti rendendo le loro regioni più attrattive, ma a discapito dei territori meno ricchi che non potrebbero fare la stessa cosa. Insomma i divari tra Nord e Sud, già presenti e molto profondi, si andrebbero ulteriormente ad acuire. A detta di molti, il peggioramento delle condizioni del meridione potrebbe portare, nel lungo periodo, a un esodo di massa di cittadini verso il settentrione contribuendo ulteriormente a spopolare una parte del paese già in crisi demografica. Inoltre è anacronistico pensare alla responsabilizzazione delle amministrazioni, dato che le regioni non sono individui o aziende, ma territori, con storie diverse, geografie diverse, demografie diverse. È impensabile credere che una regione come la Calabria, montuosa e scarsa di risorse, possa raggiungere i livelli economici della Lombardia, pianeggiante e al centro dell’Europa, vicina a tutti i centri di rilievo produttivo.

Come affermato dal governatore della Puglia Emiliano in un’intervista sulla Repubblica, “… venuto meno il principio solidaristico che i più ricchi aiutano i più poveri attraverso la fiscalità nazionale, viene meno l’unita della nazione”.

Un’analisi critica

Come dimostrato, la riforma è davvero scritta male. Molto male. E potrebbe mettere a soqquadro un sistema già fragile e inefficiente di per sé. Il trasferimento di funzioni alle regioni comporterà l’apertura di nuovi organi burocratici e istituzionali che si andranno ad aggiungere a quelli statali già esistenti, il che comporterà spese sempre maggiori. La riforma potrebbe sabotare non solo alcuni territori, ma tutta l’Italia, andando a creare un arzigogolato sistema in cui le regioni si fanno a gara per accaparrarsi più risorse e cercare di mantenere alta la loro attrattività. L’economia di certo sarà messa in difficoltà da sempre maggiore burocrazia, con ogni regione che potrebbe avere leggi diverse su molteplici temi. Un territorio non si arricchisce con l’autarchia ma se riesce a scambiare risorse facilmente con l’esterno; e questo è un dato di fatto.

Inoltre i temi su cui l’autonomia viene concessa sono troppo ampi; la maggior parte di essi deve rimanere necessariamente in mano al governo centrale. È inconcepibile che possano essere trasferite materie come l’istruzione (potremmo avere 20 sistemi scolastici differenti), o altri di strategia nazionale, se non addirittura sovrannazionale, come porti, aeroporti, energia, rapporti con l’UE. C’è davvero il rischio di creare 20 microstati in conflitto tra loro. Mentre si  cerca una sempre maggiore integrazione con gli altri paesi europei, per rispondere a sfide di portata globale sempre più complesse, l’Italia fa passi indietro, dissezionando il suo territorio. In tal modo è impossibile costruire strategie sul lungo periodo.

Peraltro, la riforma cozza profondamente con l’altra promossa in questi mesi dal governo, quella sul premierato, che ha l’obbiettivo di centralizzare e aumentare i poteri del presidente del consiglio. Che utilità ha rafforzare questi poteri se le facoltà ancora in mano al governo nazionale potrebbero essere soltanto esercito, polizia e poco altro? Questo è sintomo di grande miopia politica da parte della Meloni, che in fondo probabilmente ha fatto questa riforma solo per un accordo fatto con la Lega e non ne è davvero convinta. Basti pensare che fino a poco tempo fa voleva abolirle le regioni, come dimostrato da un progetto di legge da lei presentato nel 2014. Insomma tanta ipocrisia (anche se pure le opposizioni non ne sono pulite, dato che fino a poco tempo fa ne erano in parte favorevoli).

In conclusione, l’autonomia differenziata, se verrà effettivamente applicata, cambierà prepotentemente il nostro sistema paese e di conseguenza anche alcuni aspetti delle vite di ognuno di noi. Il problema sta nel capire se lo farà in meglio o in peggio; le basi che si stanno ponendo non sono di certo rassicuranti.

Simone Miccio 3a classico