Il 6 febbraio 2021, il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha firmato un decreto che autorizza la distribuzione e l’utilizzo, seppur con delle limitazioni e in via straordinaria, degli anticorpi monoclonali contro la Covid-19, prodotti  dalle aziende Regeneron (casirivimab/imdevimab) ed Eli Lilly (bamlanivimab). Gli anticorpi monoclonali sono dei farmaci prodotti in laboratorio. Derivano dagli anticorpi presenti nel plasma di pazienti guariti, ma sono sintetizzati artificialmente. Possono essere quindi prodotti in grandi quantità e il loro utilizzo ha rivoluzionato le terapie per le malattie degenerative, autoimmuni, neoplastiche e infettive molto gravi e letali. Gli anticorpi sono delle proteine specifiche contro un patogeno, prodotte dalle cellule del sistema immunitari: ogni cellula produce un anticorpo diverso dagli altri e contro un certo patogeno possono essere attivate tante cellule diverse, ciascuna con il proprio anticorpo. E’ possibile, però, isolare una singola cellula, un singolo “clone” e farle produrre anticorpi del tutto identici fra loro, definiti per questo monoclonali, cioè provenienti dallo stesso clone. Il bersaglio di questi anticorpi è la proteina “spike”  del Sars-COV-2 , che gli permette di entrare nelle cellule umane. Hanno sia un’azione diretta, poiché legano e bloccano la proteina, impedendo al virus di infettare le cellule, sia indiretat; infatti agiscono anche sul sistema immunitario del paziente, spingendolo a riconoscere il virus più velocemente e ad eliminarlo. L’Italia ha quindi appena approvato l’utilizzo di bamblanivimab (Eli Lilly) e del cocktail costituito da casirivimab  e imdevimab (Regneron), ma almeno altri sei hanno raggiunto la fase finale della sperimentazione. Inoltre, sta per partire anche lo studio degli anticorpi prodotti dal MAD Lab  in Toscana, coordinato da Rino Rappuoli. Al momento il loro utilizzo è limitato a pazienti “ ad alto rischio”, ovvero a persone risultate positive al Virus con più di 55 anni e/ o con patologie   croniche come diabete, ipertensione e obesità. Inoltre, poiché diversi studi hanno dimostrato l’inefficacia  di questi farmaci in pazienti già ricoverati o in terapia intensiva, la somministrazione è autorizzata solamente entro una settimana dalla comparsa dei sintomi lievi o moderati che siano, sulla falsariga di  ciò che avviene già negli Stati Uniti e in Canada. L’Italia ha quindi a disposizione  un’arma in più per contrastare la pandemia, ma questo non deve far pensare che ci troviamo di fronte ad un farmaco salvavita, per due motivi. Innanzitutto, sebbene il trattamento effettivamente riduca il numero dei ricoveri, non esiste ancora nessuno studio che dimostri un calo della mortalità. Inoltre, la somministrazione avviene tramite un’iniezione endovena  che richiede  personale specializzato e un periodo di osservazione successivo di 2- 3 ore per la comparsa di  possibili reazioni avverse: tempo e personale, due risorse che in un periodo di emergenza sanitaria come questo sono spesso difficili da reperire. C’è poi da tenere a mente la diffusione delle varianti del virus, alcune delle quali sembra contengano mutazioni potenzialmente capaci di permettere al virus stesso di sfuggire al legame con gli anticorpi, rendendo meno efficace il trattamento. Molti studi sono attualmente in corso per valutare quanto sia concreta questa possibilità. Nel mentre, l’agenzia Europea Ema non ha ancora rilasciato la certificazione per questi due farmaci, ma ha fatto sapere che sta al momento valutando i risultati preliminari e che “la valutazione continuerà fino a quando non saranno disponibili prove sufficienti”. La comunità scientifica mondiale  è impegnata a proporre dei rimedi farmacologici atti ad arrestare l’ infezione, tuttavia ritengo che l’ unica speranza di salvezza consista nella somministrazione del vaccino  a tutta la popolazione nel più breve tempo possibile. A tal proposito sono stati predisposti dalle autorità piani vaccinali, che, però non possono essere sempre rispettati  per l’ impossibilità di produrre una quantità così elevata di dosi.