Raffaele Pastore: una voce contro la camorra
23 novembre 1996. Ore 18,30. Via Carminiello, Torre Annunziata, nel negozio di mangimi di Raffaele Pastore (35 anni, sposato con due figli, uno di 2 e uno di 7 anni), due uomini col volto coperto iniziano a sparare. L’anziana madre di Raffaele, Antonietta Auricchio, di 66 anni, viene ferita e assiste, impotente, alla morte del figlio. Raffaele, colpito gravemente, viene subito trasportato in ospedale, ma non ce la farà. A casa di Raffaele, insieme a sua moglie e all’altro suo figlio, resta di lui, conservata in un cassetto, una pistola, comprata per proteggersi, ma che non aveva mai avuto il coraggio di portare con sé.
Già due anni prima una denuncia per estorsione: “Se vuoi stare tranquillo devi darci 50 milioni” gli avevano detto, ma Raffaele non c’era stato. A lui il “pizzo” non andava giù. E pagò con la vita questo suo dissenso. “Non voleva essere un eroe”, dichiarò un parente il giorno dopo la morte ai giornali, “voleva soltanto vivere una vita normale, da cittadino e non da vittima”. Ma forse alla camorra quella normalità faceva paura. Forse era più facile silenziare con gli spari la voce di “quel ragazzo come tanti”, di quel “brav’uomo che credeva in quello che faceva” (come lo definì un anonimo collega), che non si sarebbe mai piegato a far “vagnari un pizzu”, far bagnare il becco nella sua attività.
Oggi un albero di ulivo accanto al suo negozio ci ricorda la sua morte, che è monito ed esempio. Perché oggi, a distanza di quasi vent’anni, la storia di Raffaele ha ancora molto da insegnarci.
Raffaele era solo un piccolo commerciante, ma ha avuto il coraggio e la volontà di riscatto necessari per ribellarsi alla malavita. Ha provato ad affrancarsi dalla schiavitù della paura. Non c’è riuscito perché era solo. Perché gli altri commercianti, a cui aveva chiesto aiuto, erano intrappolati, per paura, nell’indifferenza e nell’omertà. Ma oggi, a distanza di vent’anni, nessuno di noi è più solo. Oggi lo Stato, le istituzioni, le associazioni, le forze dell’ordine sono più forti. Oggi il velo dell’omertà si sta squarciando pian piano. Oggi la scuola, insieme alle altre istituzioni, sta diffondendo la cultura della legalità e dell’onestà. Certo non basta; la strada da fare è ancora lunga. Troppe sono ancora le vittime delle mafie. Troppi ancora gli innocenti uccisi per l’unica colpa di voler vivere una vita normale. Troppi gli imprenditori ancora costretti a pagare il “pizzo”. Noi, però, possiamo ribellarci a tutti i soprusi, alle ingiustizie, alle violenze. Possiamo continuare a diffondere la cultura e il rispetto delle leggi, le armi più potenti che abbiamo contro le mafie. Possiamo dire ‘no’ al racket e alla camorra e sì ad un futuro migliore.
Nel ricordare e nel piangere la morte del coraggioso commerciante torrese, tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo essere, almeno un po’, Raffaele Pastore.
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