Mentre la pandemia monopolizza l’informazione e immobilizza le nostre menti e i nostri cuori costringendoci in un limbo spazio-temporale, Papa Francesco compie, in assoluta controtendenza e sfidando il virus, quello che solo cronologicamente è il suo 33° viaggio apostolico, ma che può definirsi – con le parole dello stesso Francesco – il “viaggio dei viaggi”: è, infatti, il primo viaggio di un Papa in Iraq e il primo di un Pontefice in un paese a maggioranza sciita. Già Papa Giovanni Paolo II avrebbe voluto realizzarlo, ma le condizioni politiche dell’epoca (era il 1999) non lo consentirono.

Così, mentre i contagi aumentano, il piano vaccinale non decolla, il festival di Sanremo ci trasmette qualcosa di straniante, Papa Francesco lancia un monito al mondo: non dobbiamo lasciare che la pandemia fermi il dialogo e la costruzione della pace, che ci faccia dimenticare come l’intolleranza religiosa e i conflitti etnici, acuiti dai flussi migratori degli ultimi decenni, abbiano caratterizzato tragicamente l’inizio del nuovo millennio. Non dobbiamo dimenticare, nonostante questa grande epidemia stia inglobando ogni aspetto della nostra esistenza, che tali eventi tragici non sono stati cancellati dall’emergenza sanitaria, ma solo “silenziati” e, come ogni altro fenomeno che non sia legato al virus, rimangono in secondo piano. Ci ricordiamo di conflitti e guerre che non conquistano più l’attenzione mediatica internazionale, ma che continuano ad alimentare odio e a seminare morte e violenza? Papa Francesco sì!

E così ha deciso di compiere un gesto altamente simbolico: si muove, anche fisicamente, nel tempo in cui è stato chiesto a tutti di limitare gli spostamenti, e va ad incontrare i “fratelli” islamici, a portare una parola di pace e fratellanza, a disinnescare quella violenza che molto spesso è ammantata da ragioni religiose. Anche questa volta il Papa mostra la sua volontà di diffondere un amore che potremmo definire “controtendenza”, con modalità e gesti che appaiono e si realizzano contro ogni aspettativa. Francesco sa bene, e lo vuole dimostrare, che tali conflitti religiosi poco hanno in comune con la “religione del cuore”, e accompagna questa sua missione-simbolo con una frase che risuona come un “marchio” di fratellanza: “Siamo tutti figli dei figli dei figli di Abramo”.

L’Iraq oggi è una terra devastata: il suo petrolio l’ha resa un obbiettivo di conquista e di interesse mondiale. Dopo la caduta di Saddam Hussein, il paese è stato dilaniato dalla guerra civile e dai sanguinosi scontri tra sciiti e sunniti ed è stato teatro della avanzata dell’Isis, la cui sconfitta militare nel 2017 ha aperto una nuova stagione di precarietà e di violente rappresaglie, a danno della popolazione. Tutta questa violenza e devastazione ci fa dimenticare quanto sia ricca, invece, l’identità di questa terra e del popolo che la abita. Il gesto del Pontefice ci riporta alla mente che l’Iraq è anche il luogo dove tutto ha avuto origine, nel quale sorge la piana di Ur, nell’antica terra della Mesopotamia, da dove Abramo partì per raggiungere la terra promessa, sottolineando il legame indissolubile, seppur così complesso, che intercorre tra ebraismo, cristianesimo ed islamismo.

Pertanto, l’Iraq è il luogo da dove, attingendo alla comune radice abramitica delle grandi religioni, l’umanità può ripartire costruendo un percorso di dialogo tra le religioni che dia voce alle molteplici alterità etniche, nel segno di una pace che non può prescindere dal rispetto dovuto a ciascuna comunità e a ciascuna identità culturale e spirituale. E’ proprio questo il messaggio recato da Roma, chiaro e centrale: “Le cose che abbiamo in comune sono così tante e importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli perché figli di un unico Dio”. Ed è lo stesso messaggio che Francesco consegna al grande Ayatollah Al Sistani, massima autorità religiosa degli Sciiti – che ha incontrato in visita privata – per sigillare la cooperazione tra le due comunità religiose, nel segno del rispetto della sacralità della vita umana, al di là dell’appartenenza religiosa.

Non vi è dubbio che il viaggio di Papa Francesco, nella sua intensità simbolica, si offra ad una molteplicità di letture per gli effetti che ne potranno scaturire, all’interno degli equilibri geopolitici di questa zona così strategica nel mondo. Eppure, a mio avviso, centrale nel viaggio di Francesco è il semplice messaggio di fratellanza che viene promosso e ribadito con forza, nonostante le infinite difficoltà: il Papa non solo si fa portavoce di tale messaggio, ma si mostra anche straordinariamente pronto a compiere gesti che, considerata la situazione storica che stiamo vivendo, si mostrano pieni di coraggio e volontà, sentimenti che adesso più che mai l’umanità necessità di vedere rappresentati. Da gesti come quelli di Francesco, che un po’ ci fanno dimenticare la pandemia e ci ricordano che la vita continua e continuerà, più che da qualsiasi altro gesto o contenuto, possono germogliare i frutti più fecondi per un futuro nel quale “l’uomo, ogni uomo, sia libero di contemplare il cielo per il quale è stato creato”.