Torre Annunziata (Na) – Ottobre.
Maestro di judo. Maestro di vita. Giovanni Maddaloni – per tutti, da sempre, affettuosamente
Gianni – è nato e cresciuto in una realtà sociale piuttosto precaria: quella di Scampia. Ma Scampia
non è solo Gomorra, come nei film. E’ anche sinonimo di legalità e di sport, di coraggio e
generosità. Così, grazie ad un incontro fortunato con un uomo saggio e magnanimo (il suo primo
allenatore che ne ha forgiato il carattere e le doti atletiche), coach Maddaloni ha trasformato la
rabbia di un’esistenza precaria nel successo di molteplici atleti che ha salvato dalla strada,
allenandoli e conducendoli a successi internazionali. Oggi, salvare gli scugnizzi di Scampia dai
pericoli di un’esistenza ai margini è diventata per lui una vera e propria missione di vita. Lo
abbiamo incontrato ed intervistato qualche giorno fa, nell’auditorium del nostro liceo “Pitagora – B.
Croce” di Torre Annunziata, nell’ambito di un progetto di inclusione scolastica sul tema dello sport
come occasione di riscatto sociale a cui è intervenuto insieme al figlio Pino, campione olimpico a
Sidney 2000.
Gianni, la sua è una famiglia prestigiosa di judoka. Come e quando è nata la sua passione per
il judo?
“Ero un ragazzo del rione. In quelle circostanze puoi solo provare ad essere forte come tutti gli altri.
Avevo dodici anni e cominciavo a fare il galletto, ma mio padre subito mise a freno questo mio
atteggiamento. All’epoca c’era il carosello. Ricordo che, un giorno, decisi di rincasare, per paura
che mio padre mi picchiasse, quando un ragazzino della mia età che, oggi, è capo boss al 41-bis, mi
prese in giro, dicendomi che avevo paura di papà. Così, rimasi lì per dimostrare che quanto mi
stesse dicendo non fosse vero. Quando, poi, salii sopra, dopo il carosello, mio padre mi diede uno
schiaffo. Il giorno dopo si ripresentò la medesima situazione ma io salii subito a casa, per timore
che mio padre potesse darmi ancora uno schiaffo. Papà morì tra le mie braccia, quando io avevo
sedici anni e, in quel momento, diventai il capo famiglia e dovetti andare a lavorare come
stuccatore. Dopo due anni, Gesù mi benedisse. Non sono un praticante di chiesa ma credo in Dio,
perché tutto ciò che io ho fatto è un segno del Signore. Così, un giorno, in una palestra di
Secondigliano, incontrai un maestro di judo, mi innamorai di lui. A quel punto iniziò la mia
esperienza: mi sposai che ero ancora giovane e nacque mio figlio Pino”.
Proprio alle vicende di vita e di sport della sua famiglia è ispirato il celebre film “L’oro di
Scampia” che racconta storie di lotta e di scugnizzi che, alla fine, ce l’hanno fatta. Cosa sente
di dire a questi giovani che vivono ancora in situazioni familiari e sociali disagiate?
“Io credo che ciò che si può dire ad un bambino di cinque anni è solo di pensare a giocare. Quando,
poi, crescendo inizierà a farsi le prime domande, ormai sarà già un atleta. Ecco perché l’attività
sportiva deve essere praticata sin dalle scuole elementari: lo sport insegna le regole ed è maestro di
vita, complice della scuola e dei genitori. Di solito, io parlo poco, porto l’esempio di mio figlio Pino
che, da bambino, è sempre stato obbediente, così come tutti gli altri miei figli, generati e putativi. Il
mio compito non è mai stato difficile perché ho avuto un complice, il judo. L’etimologia del
termine parla chiaro: “ju” vuol dire la strada, la flessibilità, amare; mentre “do” è la casa, quindi
significa che sto in casa mia, con il maestro che è un mio amico o mio padre o un fratello”.
Nel film, campeggia una frase: “Non abbandonare i tuoi sogni”. Belle parole ma noi, oggi, nel
concreto, come possiamo aiutare quei ragazzi coinvolti in brutti giri?
“Io uso piacevolmente lo sport. Quando in palestra arrivano ragazzi che non hanno possibilità di
pagare, non pagano. Bisogna avere un grande cuore, aiutare i ragazzi e io lo faccio. Quindi non solo
bisogna avere la professionalità di tecnico, ma anche un cuore da educatore. Dare la possibilità ai
ragazzi di fare sport gratuitamente, mettere un bambino autistico in un circuito tra normodotati,
nulla è semplice. Bisogna creare amore nell’ambiente, e queste sono le prove di come si può agire
attraverso il cuore, non solo con la mente. Credo che nel film qualcosa sia stata messa per fare un
po’ di scena, come la morte del ragazzo, nessun delinquente ha mai pensato di farmi del male,
delinquente lo si diventa, non si nasce”.

Andrea Carlucci
con il contributo della
III, IV, V A Sportivo
VA Classico
del
Liceo Statale “Pitagora – B. Croce” di Torre Annunziata (Na)
foto di Teresa Esposito (V A Sportivo)