DANTE DALLA A ALLA Z: “M” COME MINOSSE
“Stavvi Minos orribilmente e ringhia: essamina le colpe… giudica e manda secondo ch’avvinghia..cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa”. Il quinto canto dell’Inferno si apre con la discesa di Dante e Virgilio nel secondo cerchio e lo stagliarsi dinanzi a loro della spaventosa figura animalesca di Minosse, giudice infernale, nella sua funzione notarile di esecutore della volontà divina. Egli si presenta sulla scena statuario, imponente, minaccioso, tale da incutere sgomento e timore, tuttavia, colto nella dinamicità frenetica delle sue azioni di giudice di anime. Nella mitologia classica Minosse era il re di Creta. Si narra, che per ingraziarsi il favore degli dei contro gli Ateniesi, avrebbe dovuto sacrificare loro uno splendido toro, ma lo sostituì con un altro. L’ira celeste si riversò sulla moglie Pasife, che, innamoratasi della splendida bestia diede alla luce il famigerato Minotauro, rinchiuso poi nel labirinto. Tuttavia per la sua fama di giusto e di legislatore Minosse fu designato dai poeti antichi, compreso Omero, giudice dell’Ade. Se il personaggio virgiliano si presenta nelle vesti di un vero giudice, il Minosse dantesco è un demone con l’aspetto di un cane furente divorato dalla rabbia e trasferito nell’inferno cristiano, secondo un processo di assimilazione della cultura classica. Nella ripresa della figura mitologica di Minosse, Dante opera una sorta di riduzione al grottesco; nel grottesco ne è avvolta tutta la rappresentazione, lungi dalla serietà che l’atto dell’amministrazione della giustizia comporterebbe, compreso il gesto che stabilisce la condanna per i dannati: avvolge attorno a sé la coda e il numero dei giri indica il cerchio a cui l’anima è destinata. Dante, dunque, lo declassa a semplice smistatore di anime. Minosse, allegoricamente, rappresenta, le forze del male, gli istinti peccaminosi che tentano di prendere il sopravvento sulla ragione, che sola, tuttavia, sa metterli a tacere. Minosse, infatti, tenta di impedire il cammino a Dante, ma Virgilio prontamente lo ricolloca nella sua dimensione di subalterno esecutore della volontà divina, ribadendogli seccamente: “ Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”.
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