Antonio Canova: un artista controverso, discusso, sul quale è stato detto molto, oserei dire di tutto. Un uomo vissuto a cavallo tra due epoche, due secoli tanto diversi e tanto contrapposti quali il Settecento e l’Ottocento, il maggior rappresentante, almeno in Italia, di quella corrente di pensiero che noi tutti conosciamo come “Neoclassicismo”. È questo il contesto storico e culturale in cui Canova lavora: è il tempo dei ritrovamenti di Ercolano e Pompei, dello studio di teorici come Winckelmann, dell’interesse per l’antico in tutte le sue forme.

Dall’ “Ebe” a “Le Grazie”, dai ritratti ai monumenti funebri, Canova dimostra di rifarsi a quella perfezione che è propria dell’arte classica, adottando le stesse forme, gli stessi precetti, le stesse disposizioni. È proprio a tal proposito che la critica ha espresso opinioni contrastanti, dando di lui un giudizio ora straordinario, ora altamente negativo. Roberto Longhi lo definiva come “lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove”; Cesare Brandi riteneva la sua scultura “il più genuino e illusivo dei surrogati”. Parole forti, che restituiscono l’idea di un artista che, nella sua intera opera, non sarebbe riuscito a lasciare nulla di sé, rimanendo legato a una mera riproduzione di ciò che fu, relegato nella rigidità. Ma fu veramente questo, quell’artista che attirò commissioni da tutto il mondo, che ricevette gli incarichi più disparati, la cui fama è tutt’oggi di portata mondiale? A parer mio, assolutamente no. Chi sono io per dirlo? Un semplice fruitore delle sue opere, che ha avuto, però, la possibilità di sperimentare dal vivo la sensazione di trovarsi di fronte a Canova nella mostra allestita al MANN qualche anno fa, intitolata “Canova e l’Antico”. E allora i suoi marmi mi hanno parlato, mi hanno raccontato di un uomo che è riuscito a superare i propri modelli portando a compimento i loro valori e i loro precetti, ma elevandoli a realtà storica attuale. E, d’altra parte, la stessa ripresa di temi classici può infondere, talvolta, una sensazione di malinconia, di nostalgia per un passato lontano, perfetto così come lo sono le opere di Canova; un passato che nulla ha a che vedere con il presente in cui viviamo e neanche con il suo stesso presente storico.

La scultura di Antonio Canova non può essere definita morta perché, si sa, i morti non parlano. È proprio per questa esperienza personale che sento la mia opinione molto vicina a quella di Giulio Carlo Argan, noto critico e storico dell’arte, che ha da sempre difeso l’originalità, ma soprattutto la vitalità del Canova, considerato da lui così moderno da risultare persino l’inventore di un prototipo del design. Canova fu uno dei primi, infatti, a riproporre diverse copie delle proprie opere, ma ognuna con il proprio alto valore, perché fedeli all’intuizione dell’artista, alla sua creatività, alla sua idea, che veniva declinata nelle diverse riproduzioni. E ciò viene confermato dal procedimento realizzativo stesso, che prevedeva il suo intervento soltanto durante la fase iniziale (la lavorazione dei bozzetti, cioè la creazione dell’idea) e la rifinitura dell’opera. I bozzetti del Canova, infatti, tutt’altro che morti, fissi o rigidi, sono ciò in cui veramente possiamo ritrovare la sua mano e la sua creatività, ciò che permette a una riproduzione in serie di divenire arte. Proprio la sua novità, il suo nuovo approccio, questa sua nuova forma di classicismo, ci portano a consideralo come un artista originale e soprattutto capace di suscitare emozioni nuove seppur nell’apparente imperturbabilità delle sue opere. Consapevole del fatto che “L’unica via per noi di diventare grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi”, lo scultore intendeva con la sua opera non semplicemente riprodurre l’antichità, ma avvicinarsi “alla fiamma del calore originario” ovvero al suo nucleo, alla sua essenza e riproporla con un linguaggio nuovo.

È proprio per questo che Canova decise di rappresentare per lo più soggetti che il mondo classico aveva raccontato attraverso i testi, di cui però non esistevano rappresentazioni visive. Ne è un esempio il celebre “Teseo sul Minotauro”, opera in cui Canova ancora una volta esalta la “nobile semplicità e la quieta grandezza” che Winckelmann attribuiva all’arte greca, rappresentando l’eroe nel momento successivo all’uccisione del Minotauro, restituendo tuttavia qualcosa che la compostezza delle opere classiche non era in grado di dare: il senso di malinconia che è possibile cogliere nel volto di Teseo e quindi il sentimento.

Quello stesso sentimento che Canova riesce a restituire in “Amore e Psiche” (in cui coglie la tensione degli amanti), o anche nell’ “Ebe” (in cui restituisce una sensualità senza precedenti, attraverso i movimenti, la levigatezza e la politezza del marmo, l’impressionante trasparenza delle vesti), oppure ne “Le Grazie” (in cui vi è tutta la dolcezza rappresentata dall’abbraccio tra le tre fanciulle, opera in cui lo stesso Stendhal riconobbe “un nuovo tipo di bellezza”). Un Canova molto vicino a Ugo Foscolo e al suo carattere preromantico è quello che vede la realizzazione di monumenti funebri, che se da un lato rendono immortali i defunti (secondo lo spirito dei Sepolcri), dall’altro diventano essi stessi eterni nella loro magnificenza. Del resto, come Stendhal scrisse: “Finché esisterà Canova si potrà comprare l’immortalità”: e ancora oggi la sua arte è più viva e immortale che mai.