Il femminicidio di Giulia Cecchettin e la condanna di Filippo Turetta
Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per il femminicidio dell‘ex fidanzata Giulia Cecchettin, uccisa l’11 novembre dello scorso anno. La sentenza, emessa il 3 dicembre dalla Corte d’Assise di Venezia, ha confermato le accuse a suo carico, ma ha escluso le aggravanti dello stalking e della crudeltà. Il giovane, a cui è stata inflitta la massima pena stabilita, ha ascoltato tutto ciò con occhi chiusi, mostrandosi quasi impassibile e mostrando di ritenere giusta la sentenza ricevuta.
Tuttavia, il suo avvocato Giovanni Caruso non si è arreso fino al giorno del processo: ha cercato invano di smontare la tesi dell’accusa e di evitare la condanna all’ergastolo al suo assistito, sostenendo che l’aggressione di Turetta fosse causata non dalla crudeltà ma da un “cortocircuito” emotivo e che Giulia non aveva davvero paura di lui poiché, ammettendo ciò, non avrebbe acconsentito a incontrarlo la sera in cui fu uccisa.
Infatti, i due ragazzi in precedenza avevano avuto una relazione, poi interrotta per i 15 motivi che Cecchettin aveva elencato nel suo diario. Ciò, però, faceva arrabbiare Filippo, che non poteva assolutamente accettare una situazione simile ed essere un semplice amico, accontentandosi di vederla occasionalmente. La sera del delitto Turetta aveva invitato Giulia a salire in auto con lui con l’intento di trascorrere del tempo insieme, mentre lei era ignara di quello che sarebbe stato il suo tragico destino. Non dando più notizie, il mattino seguente si diffuse subito la notizia della scomparsa. Le ricerche iniziarono dopo la denuncia presentata dai familiari con la speranza di ritrovarli il prima possibile e sani e salvi.
Gli investigatori ricostruirono così i movimenti dell’auto del giovane fino alla frontiera con l’Austria e successivamente in Germania, acquisendo in seguito un video risalente all’11 novembre dove Filippo aggrediva e caricava forzatamente in auto Cecchettin nella zona industriale di Fossò, in provincia di Venezia. Una settimana dopo, fu trovato il corpo di Giulia in un dirupo della val Caltea, in Friuli, coperto da sacchi di plastica. Il giorno successivo Turetta venne arrestato in Germania, confessando fin da subito di averla uccisa, per poi essere condotto nel carcere di Montorio a Verona. Qui, durante il primo interrogatorio, spiegò nei dettagli il delitto compiuto e le motivazioni, facendo emergere il risentimento per la fine della relazione: «Ho ucciso Giulia perché non voleva tornare con me, provavo risentimento, rabbia, non lo so…. Sentivo di aver perso per sempre la possibilità di tornare insieme. Ho percepito la possibilità di perdere il rapporto. Volevo tornare assieme a lei, soffrivo molto e provavo risentimento verso di lei».
Il significato delle parole di Turetta e del femminicidio
Dalle parole appena citate di Turetta emerge il pensiero ancora molto comune, legato ad una radicata cultura patriarcale e maschilista, per cui il ruolo dell’uomo è superiore a quello della donna, su cui ha un diritto assoluto. Tale idea ha causato l’ennesima vittima, un’altra delle tante ragazze che non potrà più conseguire i suoi obiettivi e vivere spensieratamente. Giulia Cecchettin, come ogni altra donna vittima, non è simbolo di un semplice e tragico femminicidio. È la rappresentazione e la conseguenza di un sistema patriarcale, è la manifestazione di un amore malato, tossico e una cronica ossessività, che culmina con le percosse e, nel peggiore dei casi, con l’omicidio, alimentato dalla gelosia e da un’eccessiva possessività. O forse come ha detto sua sorella Elena Cecchettin, “Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere, è un omicidio di Stato perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge”.
Il dolore del padre di Giulia e il valore della giustizia
Il padre di Giulia,Gino Cecchettin, intervistato dopo la lettura della sentenza, ha espresso il suo pieno dolore come genitore e ha risposto a chi gli ha chiesto se un giorno perdonerà Filippo Turetta che : “La capacità di perdonare o ce l’hai per dono di madre natura, o la conquisti raggiungendo un livello talmente alto da fare un salto di qualità come persona. lo questo salto non l’ho ancora fatto. Per questo mi è difficile anche solo immaginare il perdono”.
Egli ha poi dichiarato di non dover dire nulla al giovane, poiché ha compreso la sua natura di narcisista, già confermata da vari esperti, e perché “dal momento che Giulia non c’è più, nessuna sua risposta potrebbe darmi conforto”. Il suo intervento, che è stato di fondamentale importanza, ci fa porre una domanda cruciale: la giustizia o un ergastolo può davvero risarcire una perdita così grande? Quanto può essere “giusta” una condanna quando quello che si perde è una vita e una figlia?
Nessuna pena o compensazione economica è abbastanza. La giustizia non può riparare, in questo caso, il danno subito e non deve limitarsi a una semplice pena da scontare. Anzi, deve favorire e determinare un cambiamento culturale e collettivo profondo. Solo in questo modo non ci saranno più altre Giulia Cecchettin perché, come ha detto sua sorella Elena, “È facile rinchiudere in cella per sempre una persona lavandosene le mani e dicendo di aver fatto giustizia…se non iniziamo a prendere sul serio la questione, tutto ciò che è stato detto su Giulia, che doveva essere l’ultima, sono solo parole al vento”.
Roberta De Rosa – III E scientifico
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