La primavera oltre la stanza: racconto di Asia Schettino
È domenica mattina e l’aria è più profumata del solito. Il sole già illuminava la stanza quando mi sono svegliata. Ho strofinato gli occhi, mi sono precipitata alla finestra, come facevo sempre da bambina. La vista è sempre mozzafiato. Sporgendomi scorgo gli alberi in fiore, tra il Vesuvio e il mare. Il giardino della nonna non è mai stato così bello. Finalmente è arrivata la primavera, sembra quasi esplosa in una sola notte. Ma soprattutto è il primo giorno di libertà, senza mascherine sul viso, e il profumo di rinascita che riempie il cuore. Mi guardo allo specchio, afferro la spazzola, tiro fuori un maglione dal cassetto e un jeans dall’armadio, e le sneakers riposte un anno fa, mi saltano agli occhi. Mi ricordo di papà quando, da piccola, mi promise un paio di scarpe nuove se avessi preso buoni voti.
«Mariuccia, se fai la brava, poi ci pensa papà a farti un regalo», mi aveva detto mentre mi pettinava i capelli, di fronte allo stesso specchio dove ora mi vedo cresciuta, e poi aveva lanciato lo sguardo sulle scarpine rosse, ormai consumate, che però conservo ancora. Da allora, le sneakers sono le mie scarpe preferite. Sono comode e mi rappresentano. Mi mancava indossarle, andare in giro per il quartiere. Sono scarpe immacolate, non sono riuscita a consumare le suole come quando andavo di fretta a scuola, come quando saltavo sul treno con le mie amiche. Sono intatte. Sembra quasi che mi stiano fissando. Da più di un anno sono rimaste in fondo all’armadio.
Il maledetto virus si è portato via anche nonna, e il dolore ha cambiato papà. Ha il viso spento, lo sguardo vuoto, è sempre stanco. Però si sforza di sorridere perché, dice: «non ci dobbiamo arrendere». Il virus ha cambiato anche me. Mi ha rubato la vita. È arrivato dal nulla, quando meno me lo aspettavo. Non sono stati mesi facili, soprattutto perché papà ha perso il lavoro. Nonna guardava il telegiornale e ripeteva: «Adda passà ‘a nuttata». Poi s’è ammalata e io sapevo già che non ce l’avrebbe fatta. Anche papà lo aveva capito. È morta sola, in un letto di ospedale, senza il conforto di chi le ha voluto bene, assistita solo dagli angeli in camice bianco, eppure io ero a pochi metri da lei. Mi ha lasciato senza dirmi le ultime parole, senza stringermi le mani senza che le potessi regalare l’ultima carezza.
A pensarci, mi ci voleva proprio l’inizio di questa primavera che sembrava così lontana. Qualche volta, ho invidiato i gabbiani. Loro volavano, leggeri. Io no. O meglio, non ho potuto.
In famiglia siamo sempre stati noi tre: io, papà e la nonna. La mia mamma non l’ho mai conosciuta, però mi hanno detto che ci somiglio, che era una brava donna, amata da tutti. Poi, dopo il parto, ha scoperto di avere una brutta malattia e se n’è andata, chissà dove. «Papà, e ora dove sta?», avevo chiesto una notte mentre mi rimboccava le coperte. «Mariuccia, e chi lo sa? Un giorno la rincontrerò». Nonna mi raccontava sempre che, quando arrivava la primavera, mamma trascorreva pomeriggi interi all’ombra del ciliegio, in giardino. A quanto pare, abbiamo lo stesso sguardo e faccio le stesse smorfie.
Ora siamo solo io, papà e il giardino, che adesso coltiviamo senza nonna.
Sotto al ciliegio, mi ci metto pure io qualche volta. Da piccola, sono sempre stata spericolata. Mi piaceva girare per il quartiere, con le mie scarpe rosse e rotte, arrampicarmi sugli scogli a costo di sbucciarmi le ginocchia. Ogni pomeriggio, dopo suola, io e la mia compagna di banco, Lucia, facevamo sempre la stessa strada. Poi, puntualmente, ci ritrovavamo sedute sugli scogli, a mangiare la sfogliatella del bar di don Vincenzo, come lo chiamava mia nonna. Dopo tornavo a casa sempre con gli abiti sporchi, allora la nonna me li lavava, così papà non si accorgeva che disobbedivo. «Tu sugli scogli non ci puoi salire, ti fai male», ammoniva ogni mattina, prima che andassi a scuola. In cuor suo, però, sapeva già che non gli avrei dato ascolto e allora sbottava, come si dice qui a Napoli, «Chi nun sta ‘a sentì a mamma e pate va a murì addò nun sape».
Io allacciavo le mie scarpine, che mi andavano pure strette, e uscivo. Lucia ed io adoravamo l’odore della salsedine, a Mergellina, col sole cocente e le ginocchia che ci bruciavano per i graffi. Testarda com’ero, arrivavo ad annusare il mare da vicino fino a toccarlo.
Papà alla fine le scarpe me le aveva comprate, avevo preso tutti otto sulla pagella, e io ero tutta contenta perché finalmente potevo camminare comoda e senza dolore. Le sneakers non le ho mai tradite, un po’ per affetto, un po’ perché mi ricordano quei giorni felici. Ora sono in strada e ancora mi accompagnano. Sembra tutto uguale: c’è di nuovo il traffico, ci sono i ragazzi in gruppo, i negozi affollati.
La pandemia quasi sembra non essere mai esistita.
«Mariuccia! Sto cca’!», urla Lucia, che intanto mi ha visto da lontano.
Lucia non è mai cambiata nel tempo. Gli stessi capelli corti e castani, gli occhi verdi, le lentiggini sparse su tutto il viso. Finalmente la posso abbracciare. Le racconto di nonna e le si rimpicciolisce il sorriso. Dopo un po’ torniamo a divertirci e a scambiarci pettegolezzi.
«Ma hai visto quant’è bella Napoli, adesso?», le dico, con gli occhi quasi lucidi dalla gioia.
«Mo sì che è Napule», fa lei.
Di nuovo il chiasso, le urla, le risate che colorano i vicoli.
Decido di tornare sugli scogli perché mi è mancato troppo.
«Mariuccia, io non mi posso sporcare, c’ho il vestito nuovo», mi avverte Lucia.
Io, che ho non ho perso il vizio, le rispondo come ho sempre fatto sin dalla quinta elementare: «Lucia, non ti fai niente, non ti preoccupare!».
L’ho convinta e adesso stiamo proprio come dieci anni fa.
Mi guardo ancora le scarpe e ripenso a papà, a nonna, al ciliegio e ai gabbiani.
«Ci vuole proprio poco a perdere tutto…», dico, dimenticandomi completamente di Lucia. «Mariù, tieni ragione. Qua è tutto un attimo, come dice mamma. Oggi ci stai e domani non ci stai più. E quanto mi era mancato stare così, vicino al mare, col caldo. Mo ci possiamo pure sorridere. Ho avuto proprio paura, Mariù. Pensavo che non sarei mai più tornata qua, su questi scogli che ho tanto detestato quando mi costringevi a salirci, ti ricordi?».
Lucia mi guarda, strizzando gli occhi per il sole. Poi mi sorride e appoggia la testa sulla mia spalla.
Sembra una fotografia. Io, l’amica di una vita, il mare e la primavera.
Avevo desiderato ardentemente questo momento.
«Mariù, sai che ti dico? Ho proprio voglia di una sfogliatella», mi bisbiglia Lucia.
Ci avviamo al solito bar, che non è cambiato di una virgola.
Invece il mare continua a bagnare la sabbia, le pizzerie finalmente occupate, la gente rinasce.
Io e Lucia ci avviamo verso il bar di don Vincenzo e, nel frattempo, restiamo in silenzio.
Siamo troppo meravigliate nel vedere la città come non lo era da troppo. Napoli non era più timida. Sto di nuovo viaggiando con la mente e tra un pensiero e l’altro l’insegna del bar si fa sempre più vicina. Il profumo delle paste mi avvolge e mi sento a casa.
«Mariuccia bella!», un grido colmo di entusiasmo sgomita tra la gente.
È la signora Rosa, la moglie di don Vincenzo. «Quanto sei cresciuta! Lucia, pure tu! Mi ricordo di quando eravate due piccerelle. Vincè, vieni qua, guarda chi ci sta!». La signora Rosa ci stringe in un abbraccio e poi si avvicina don Vincenzo, il proprietario. «Piccere’, finalmente ci vediamo!», mi abbraccia pure lui. «Hai visto, Vincè? Si fa sempre più uguale alla mamma». Fa la signora Rosa al marito, prendendomi la guancia destra con le dita e stringendola.
Ho visto qualche foto della mia mamma, è quel che mi resta. Si chiamava Maria. Perciò mi hanno chiamata Mariuccia. Era proprio bella, la mamma. Papà ci aveva visto bene. Aveva i capelli lunghi, neri, come il carbone. Gli occhi erano azzurrognoli, come i miei. Non era mai truccata, non ne aveva bisogno. Sembrava gentile. Ho anche una foto scattata da papà in cui è sotto al ciliegio, con una margherita fra i capelli, raccolti a loro volta in una treccia che scivola sulla spalla. Un vestitino rosa e un libro sulle ginocchia. Si era accorta di papà e aveva fatto la smorfia che facevo io quando Lucia non voleva salire sugli scogli. Un tempo ero arrabbiata con lei, non volevo somigliarle. Era andata via e non ha neanche avuto il tempo di cantarmi una ninna nanna. Non era giusto. Mi è sempre mancata. Adesso sento le parole della signora Rosa, che la conosceva bene mia mamma, e sorrido, sperando che ovunque lei sia possa guardarmi. Intanto la guancia mi si è arrossata e abbiamo comprato due paste.
È quasi mezzogiorno e il litorale inizia a svuotarsi.
Anche Lucia sta tornando a casa. Per salire sugli scogli si è rovinata il vestito, proprio come succedeva a me con le scarpine rosse. Fa sempre più caldo e le case si riempiono. Posso quasi sentire lo scoppiettio del ragù nelle pentole, mentre scendo i gradoni dei vicoli. Cammino ancora per un po’ e intravedo papà. È in giardino, come al solito.
«Mariù, guarda qua che belle fragole!», mi dice, come se le vedesse per la prima volta.
Un sorriso sotto i baffi, le mani sporche di terreno, il solito gilet beige.
Poi, inaspettatamente, mi stringe forte a sé.
«Mariuccia, mi resti solo tu».
Mi sussurra all’orecchio, con la voce rotta dall’emozione, gli tremano le mani. Si allontana di colpo, una lacrima gli accarezza il viso. I suoi occhi, azzurri come quelli di mamma e i miei, mi ricordano il mare e gli scogli. Mi ci specchio e mi sento al sicuro. Rientra in casa, io do un’occhiata alle fragole appena raccolte, nel cestino in vimini.
«Mettiti qua, Mariù!», mi dice, mentre il ciliegio lo ripara dal sole, ormai rovente.
Ha una macchina fotografica, sembra vecchia, c’è ancora la polvere sul rullino.
Mi siedo sotto l’albero, guardo mio padre. Per la prima volta dopo tempo, mio padre è felice per davvero. Cerco di imitare la posa di mia madre, sposto i capelli verso sinistra e sorrido all’obiettivo. Scatta la foto e la osserva per qualche minuto. Mi chiedo se ripensa a mamma. Resta in silenzio, immobile.
«Hai visto, papà? Alla fine la nottata è passata…».
Gli faccio posto sul prato, accanto a me. Lui mi guarda e sorride e prende una fragola dal cestino. «Assaggiala, dimmi com’è».
Da quanto non ne mangiavo una. Mentre l’assaporo mi tornano in mente tutti i momenti in cui ho tanto desiderato una mattina come questa, un giorno felice. Mi ricordo dell’infanzia, delle scarpette rosse a cui ero tanto affezionata e che mi hanno portata lontano.
«Buonissima», dico a papà con la bocca ancora piena.
Lo abbraccio io stavolta. Anche lui è tutto quel che mi resta.
È domenica mattina e l’aria è più profumata del solito, è il primo giorno di libertà.
Finalmente è tornata la primavera.
(1° premio, concorso “V. Rispo”, liceo Garibaldi, Napoli)
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