Sono le cinque di un afoso pomeriggio di inizio luglio, uno di quelli in cui si declinano gli inviti di amici insistenti, si zittisce il gracchiare rauco della televisione e si resta da soli, a nudo, senza nessun riparo precostituito. Il caldo, tra i suoi effetti collaterali, ha anche questo: sembra una di quelle medicine che da bambino ti forzano a prendere e che trangugi aspettando il retrogusto zuccherino che, puntualmente, non arriva. Quel pomeriggio, però, la calura portò del dolce alle mie pupille. Anche il mio appartamento era diventato troppo stretto e soffocante e, così, decisi di recarmi in spiaggia per fare due passi: presi gli occhiali da sole, le chiavi della macchina e partii. Arrivai poco dopo, visto che il mare non dista molto da casa mia, e mi incamminai lungo il bagnasciuga. Ad un tratto scorsi un bambino solitario che si divertiva a far rotolare una biglia cristallina, che rifletteva i raggi del Sole, lungo una pista che, pensai, aveva fatto lui.

Non riuscivo a capire come la gioia sincera del bambino potesse derivare da così tanta banalità. Certo, sapevo e avevo ben in mente, essendo un uomo ormai maturo, che a quell’età si vive in un reame che sottostà alle nostre leggi e che ogni piccola cosa diventa grande, importante e degna di una bonaria risata o, almeno, di un sorriso: spesso si dice che la montagna partorisce il topolino, ma durante l’infanzia accade il contrario.  Divagavo così fissando quella biglia sfavillante che, mossa magistralmente dalle mani del piccolo, percorreva all’infinito quella pista che, ormai, mi sembrava un autodromo in cui le vetture sfreccianti erano sostituite da minute sfere di vetro. Questa visione, unita all’atmosfera surreale che si era creata sulla spiaggia, colpita dal crepuscolo e permeata dalle stridule voci dei gabbiani, mi fece venire in mente tutto ciò che aveva seguito il mio essere bambino: il liceo frequentato sotto indicazione dei miei genitori, l’università che, anche in questo caso, non avevo scelto io, tutti gli amici, le amiche, le mie fidanzate, le vacanze, i momenti di gaudio e quelli di cordoglio.

Una cosa accomunava la mia pur breve esistenza: non l’avevo mai vissuta come se fosse veramente mia, non l’avevo mai conosciuta. Era solo un’ospite che viveva e gozzovigliava nella mia dimora, che ingrassavo in vista del macello. Avevo sempre inseguito uno scopo che lì, sulla riva, con i pantaloni ormai intrisi di acqua salina, capii essere assurdo: la vita è una biglia o, meglio, è il percorso di una biglia che al bambino piace così com’è, piace in ogni sua curva, in ogni suo dosso e imperfezione ed egli non gioisce per una meta da raggiungere, ma per la sua assenza, per la completa libertà che la sua biglia e la pista gli offrono.

Capii tutte queste cose in un momento inaspettato, ma di cui necessitavo in quel periodo in cui mi sentivo stabile come un castello di carte davanti ad un ventilatore.

Proseguii congedandomi dal bambino con un cordiale sorriso quando improvvisamente sentii un suono ripetuto, quasi robotico: aprii gli occhi ed erano le 7:36 di un lunedì mattina di gennaio.

(3° premio, concorso “V. Rispo”, Liceo Garibaldi, Napoli)