Israele in un vicolo cieco: il suo governo ne gioisce
poco più di un anno è trascorso da quel 7 ottobre. L’operazione “diluvio al-aqsa” di Hamas provocò quel giorno una mattanza di 1200 morti e 250 ostaggi da parte israeliana. La storia la conosciamo: il 26 ottobre l’IDF (Israele Defense Forces) inaugurò la sua operazione di terra contro la striscia di Gaza, con nome accomodante e pacifico: spade di ferro. Da quel momento il conflitto non è mai cessato (eccetto per una breve tregua alla fine del novembre scorso) e, anzi, è andato sempre più ad esacerbarsi, coinvolgendo progressivamente nuove fazioni da ogni angolo del Medio oriente tanto che ora Israele ha ben sei fronti più o meno aperti: quello a Gaza, quello in Libano contro Hezbollah, contro le milizie scite degli Houti in Yemen, verso altri gruppi sciiti sparsi per Iraq e Siria e infine con l’Iran.
In questa caotica e intricata situazione sembra non esserci una fine, né tantomeno delle prospettive di pace. Come è stato possibile giungere a tal punto? Sorprenderà il lettore sapere che questa matassa di conflitti ha sotto un lurido interesse politico: e il bandolo della matassa porta il nome di Benjamin Netanyahu.
Un Matusalemme del potere con qualche problema giudiziario
È dalla metà degli anni ’90 che, a fasi alterne, questo signore tiene le redini del governo di Israele. Netanyahu ne ha passate tante ma è sempre riuscito a mantenersi a galla e a tenere saldo il suo approccio alla politica. Sarà facile immaginare che, come ogni politico navigato che si rispetti, Ben ha collezionato un invidiabile numero di accuse di frode, corruzione e altro ancora. A quanto pare, il numero di anni al potere è direttamente proporzionale a quello dei capi d’accusa che si accumulano (in Italia abbiamo fatto molta esperienza in tal senso). Ora, è successo che per fuggire da questi piccoli problemi con la giustizia Bibi abbia anche tentato, pochi mesi prima dello scoppio della guerra, di fare una riforma della giustizia per indebolire il ruolo della Corte suprema e politicizzarla sempre più. Per fare ciò aveva anche creato il governo più a destra della storia dello stato ebraico, appoggiandosi alla partecipazione di elementi etno-nazionalisti, come il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. La riforma, che ha spaccato in due fazioni il paese e che ha provocato per mesi partecipatissime proteste, avrebbe provocato non solo uno sbilanciamento dei poteri nelle istituzioni israeliane (a favore ovviamente dell’esecutivo) ma anche una possibile emanazione di leggi ad personam (leggi fatte per favorire un individuo) che avrebbero potuto alleggerire il peso dei processi contro il primo ministro.
Dopo il 7 ottobre questi progetti di legge sono stati accantonati per un ovvio cambio di priorità, ma ciò non toglie che è tuttora negli interessi di Netanyahu mantenere in piedi il suo governo per l’immunità parlamentare che può garantirgli di sfuggire ai processi che lo riguardano; e qual è Il modo migliore per continuare a esercitare il potere? La guerra continua.
Le responsabilità istituzionali nel 7 ottobre e il mantenimento del potere
Se la guerra finisse domani a cosa andrebbe incontro il governo di Netanyahu? Probabilmente, avrebbe i giorni contati. Innanzitutto, perché è un governo di unità nazionale, alcune fazioni ne hanno cominciato a far parte in seguito al 7 ottobre, mentre altre si sono date all’astensione di guerra, per conferire stabilità al paese nell’emergenza nazionale. Ma, finita l’emergenza, anche il governo unitario è destinato a scomporsi od andrebbe comunque incontro a delle forti polemiche riguardanti l’attacco di Hamas. Come ha potuto Mr. Sicurezza (così si era presentato alle elezioni) permettere tutto questo? Ma, soprattutto, davvero non si poteva evitare? Il governo e gli apparati di sicurezza non ne sapevano niente? La risposta è no.
Al contrario della versione ufficiale del governo, sappiamo oggi che i servizi segreti di Israele, il Mossad, sapessero di movimenti sospetti di unità militari all’interno della striscia di Gaza. In un report datato 19 settembre 2023, vengono descritte le esercitazioni di Hamas per attaccare kibbutz, rapire civili e militari. Dato che gli apparati militari sapevano, è molto probabile che notizie di ciò fossero anche arrivate alla politica. Quindi, perché non è stato fatto nulla? Di certo sappiamo che Israele è un paese sempre all’erta, che ha enormi problemi di sicurezza e deve ritrovarsi a gestire numerose beghe che spesso ne determinano la sopravvivenza. Pertanto, è possibile che un rapporto del genere sia passato inosservato, come uno tra tanti, a cui non si è dato il giusto peso. Questo comporterebbe comunque delle responsabilità, anche politiche. Difatti, nel suo governo ultra-nazionalista, era per Bibi vitale mantenere l’appoggio dei coloni stanziatisi illegalmente in Cisgiordania, nei territori palestinesi, in grado di foraggiarli con centinaia di migliaia di voti. In questa visione, si andrebbe ad inserire il totale concentramento di forze militari e politiche nell’ambito della West Bank e dello scontro con il nemico simbolo per eccellenza, l’Iran. Da cui, il totale disinteressamento verso Gaza e Hamas. Se aggiungiamo poi la rivalità in corso, favorita dallo stesso Netanyahu, tra servizi segreti preposti agli esteri (il Mossad) e quelli agli interni (lo Shin Bet) e, di conseguenza, una mancanza di coordinazione tra essi, necessaria per prevenire attacchi di questo genere, la frittata è fatta.
Le malelingue, poi, si spingono a dire che il tutto sia stato direttamente favorito da Netanyahu; ma poco ci fidiamo dei complottisti. Tuttavia è vero che l’attacco, e le operazioni militari che ne sono conseguite, abbiano effettivamente rafforzato l’esecutivo ed unito gran parte della popolazione contro un nemico comune (o, per meglio dire, più nemici). Insomma, fino a quando la guerra continuerà, Bibi potrà dormire sogni tranquilli.
Gli sviluppi più recenti
I risultati militari ottenuti dall’ Idf sono ambigui: da un lato, è vero che molte teste sono cadute, gerarchi sia di Hamas che di Hezbollah (recentemente anche i leader delle rispettive organizzazioni, Sinwar e Nasrallah); dall’altro si ha la percezione di essere entrati in un vicolo cieco, dove si raggiungono delle vittorie tattiche ma senza alcuna strategia sensata.
A Gaza, le operazioni hanno quasi raggiunto il loro primo anniversario, ma la disgregazione di Hamas è ancora lungi dall’essere avvenuta. L’esercito bombarda, lancia operazioni di ogni genere, avanza, compie ritirate “strategiche”. Il tutto con un costo di oltre 40.000 vittime civili, che hanno fatto sospettare il genocidio, e con solo una parte degli ostaggi che è ritornata a casa (ne restano a Gaza un centinaio, la metà delle quali è data per deceduta).
In Libano, dove la guerra si è estesa a settembre, non si sono verificate grandi avanzate al momento e si sta anche correndo il rischio di inimicarsi molte cancellerie occidentali che finora erano state fedeli allo stato ebraico. Nel sud del paese è infatti attiva da molti anni l’operazione Onu “Unifil” alla quale partecipano paesi come Germania, Francia, Spagna e Italia ( il nostro paese ha uno dei contingenti più numerosi, 1200 soldati). Queste nazioni, da anni impegnate nell’area per pacificarla e favorire accordi diplomatici tra le parti, si sono ritrovate spiazzate dall’invasione di Israele. L’Idf ha, in diverse occasioni, utilizzato le basi Onu come scudo e addirittura attaccandole in alcuni casi, provocando qualche ferito. L’obbiettivo è, secondo alcuni, quello di far allontanare dei testimoni scomodi, che intralciano le operazioni militari. Mentre i rapporti con l’Europa si fanno sempre più tesi, non è da escludere che la corda con gli Stati Uniti, che finora hanno rimpinzato di armi gli israeliani, prima o poi finisca col spezzarsi.
Insomma si ha la sensazione di assistere ad un conflitto che non ha né capo né coda, in cui la guerra non è un mezzo ma il fine ultimo per cementificare il potere. La società civile occidentale vede con sempre maggior sfavore le azioni di guerra nell’area. Molte proteste e manifestazioni si stanno sollevando e il rischio corso dallo stato ebraico è anche quello di una crisi di popolarità e legittimazione. Rende chiara la situazione una frase del giovane giornalista, ebreo italiano, Davide Lerner, in riferimento alle proteste alla Columbia University della scorsa primavera: “Per i nonni dei miei compagni Israele era Davide. Per loro era diventato Golia”.
Simone Miccio 3A classico
Fonti dei temi più caldi dell’articolo consultabili liberamente online:
– I dubbi sulla genesi del caos: Israele sapeva in anticipo dell’attacco di Hamas. I dubbi sulla genesi del caos; Inside Over, di Andrea Muratore, 18 giugno 2024.
– Israele sapeva del piano di Hamas: Israel army knew of Hamas’s plans on 7 october, report finds; Middle East Eye, di MEE staff, 18 giugno 2024.
– Il fallimento dell’intelligence israeliana: Military Intelligence alert system poorly maintained in lead up to october 7; The Times of Israel, di Toi Staff, 7 luglio 2024.
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